IL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E I BENI CULTURALI: CRITICITA’ IN TEMA DI APPALTO dell’Avv. GIUSEPPINA SCHETTINO.

Locandina Convegno 25 ottobre 2023

 Relazione tenuta in occasione del Convegno “IL PATRIMONIO CULTURALE NAZIONALE TRA INNOVAZIONI LEGISLATIVE E TECNOLOGICHE: PROSPETTIVE FUTURE” svoltosi a Roma presso la Corte Suprema di Cassazione il 25 ottobre 2023 organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e dall’Associazione Romana di Studi Giuridici

 

 

Ringrazio e saluto l’Ordine degli Avvocati di Roma che ci ospita, l’Associazione Romana di Studi Giuridici e tutti i presenti.

 

Possiamo considerare, in linea di massima, tre diversi ambiti nei quali i beni culturali vengono in rilievo nel Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 36/2023 e quindi con riferimento anche all’appalto:

 

  1. quando l’appalto è strumentale alla conservazione e alla valorizzazione del bene culturale e ci riferiamo alla disciplina speciale contenuta negli articoli 132 -134 del Codice;
  2. quando l’opera pubblica da realizzare entra in conflitto con la tutela del bene culturale: ci riferiamo alla c.d. archeologia preventiva (artt. 38 e 41) e, nella accezione più ampia di bene culturale, ricomprensiva anche del bene paesaggio, alle norme che tutelano l’impatto ambientale dell’opera (VIA), tema quest’ultimo che non toccheremo;
  3. con riferimento a tutti gli appalti di lavori o di concessione di servivi, in maniera trasversale, in quanto la normativa impone – con particolare attenzione al settore di beni culturali e del paesaggio – l’inserimento di clausole sociali del bando di gara e degli avvisi ovvero l’osservanza di criteri di sostenibilità energetica ed ambientale (art. 57 del Codice).

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  1. Partiamo, quindi, dalle norme che disciplinano l’appalto e i contratti pubblici, in quanto strumentali alla conservazione e/o valorizzazione dei beni culturali.

Il Codice dedica gli articoli 132-134 precipuamente al settore dei beni culturali; essi costituiscono disciplina speciale.

Questa disciplina è assorbita in modo corposo dall’art. 134, relativo ai contratti gratuiti e alle forme speciali di paternariato, ma su questo tema non faremo cenno perché è stato già affrontato in maniera impeccabile nella prima Relazione sulla sponsorizzazione svolta dal Presidente dell’Associazione, Maurizio De Paolis.

Per il resto, la disciplina speciale, salvo alcune eccezioni,  rinvia alle norme contenute nel Codice, riflettendone i principi e le eventuali criticità.

Accenniamo, quindi, prima di tutto, a qualche aspetto generale del Nuovo Codice, per i suoi riflessi nel settore che ci interessa, segnalando che esso è preceduto da una Relazione illustrativa che è stata definita una sorta di manuale operativo, tanto è esaustiva.

Il Codice dei contratti pubblici rientra, come noto, negli obiettivi assunti dal Governo con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e recepisce parte della disciplina d’urgenza varata durante la pandemia.

Vi è in esso una risposta forte alla esigenza di semplificazione e velocizzazione delle procedure per l’affidamento e per l’esecuzione dei contratti pubblici.

Con il nuovo Codice si rimuovono anche i limiti ulteriori, rispetto a quelli previsti dalle direttive europee, in modo da realizzare l’allineamento del nostro ordinamento interno ai principi euro-unitari in tema di concorrenza.

Proprio in virtù dell’abbattimento di alcuni limiti, al RUP (responsabile del progetto e non più del procedimento) è lasciata una più ampia libertà di decidere rispetto al passato.

Il RUP, però, ha l’onere di fissare i criteri necessari per autovincolare il proprio operato (art. 2, comma 3), tenendo conto delle esigenze concrete dell’opera da realizzare e avendo come bussola di riferimento il c.d. principio del risultato. Questo adesso è un principio cardine, posto all’articolo 1 del Codice.

Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti, infatti, perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione attraverso il rispetto dei seguenti paramenti:

  1. massima tempestività;
  2. miglior rapporto qualità e prezzo;
  3. rispetto del principio di legalità;
  4. trasparenza;
  5. concorrenza, e di tanto devono dare contezza nelle loro scelte.

L’ossatura di tutte le procedure è, poi, data dalla digitalizzazione. E l’impianto informatico del procedimento amministrativo condurrà inevitabilmente ad attribuire agli algoritmi della intelligenza artificiale anche la verifica di molti dei requisti e delle condizioni dell’offerta, riducendo così anche l’entità del contenzioso: questo, verosimilmente, sarà prevalentemente incentrato sul sindacato della motivazione offerta dal RUP per giustificare le sue scelte prettamente discrezionali e, quindi, verterà sulla sufficienza, validità, logicità della motivazione, nonché sulla adeguatezza e congruità dei criteri ai quali si autovincola, nel rispetto del principio del risultato, per come è connotato dagli articoli 1, 2 e 3 del Codice, che vanno letti tutti insieme.

Alcuni soltanto degli elementi caratterizzanti la disciplina del Codice, che aumentano la discrezionalità delle stazioni appaltanti, sono:

l’innalzamento della soglia degli affidamenti diretti;

l’eliminazione dei limiti percentuali al subappalto;

l’eliminazione del divieto del subappalto a cascata;

la possibilità di reintrodurre il massimo ribasso.

Questa premessa torna utile per evidenziare come, sotto certi aspetti, il Responsabile del Progetto possa ora beneficiare di un raggio di azione più ampio, in una materia particolare, come quella della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, dove giova avere un certo margine di libertà e di auto-responsabilità per la realizzazione di determinati progetti.

Il Codice dedica, come anticipato, gli articoli 132-134 e l’Allegato II.18 precipuamente al settore dei beni culturali.

La disciplina speciale è così articolata:

– l’art. 132 stabilisce che ai contratti concernenti i beni culturali si applicano le pertinenti disposizioni del Codice, ad eccezione dell’istituto del c.d. avvalimento;

–  l’art. 133 disciplina i requisiti di qualificazione dei soggetti che eseguono i lavori e dei direttori tecnici, nonché i livelli e i contenuti della progettazione e le modalità del collaudo, facendo espresso riferimento, in sede di prima applicazione, all’Allegato II.18;

–  l’art. 134, come già visto, disciplina i contratti gratuiti e le forme speciali di paternariato

Il settore, come dicevamo, è connotato da specialità, la quale trova fondamento nella esigenza di assicurare che ogni intervento sui beni culturali venga eseguito soltanto da soggetti qualificati e con specifica esperienza in materia.

Il divieto dell’istituto dellavvalimento nel settore dei beni culturali, d’altro canto, si fonda proprio sullo stretto intreccio esistente tra esecuzione di contratti che involgono i beni culturali e possesso di requisiti specifici di qualificazione da parte dei soggetti esecutori.

Mentre l’avvalimento è vietato, il subappalto no.

A differenza dell’avvalimento, infatti, il subappalto, che condivide la medesima finalità del favor partecipationis delle imprese, presuppone che l’impresa subappaltante abbia i requisiti per partecipare alla gara.

Questo esclude in radice che, in caso di subappalto, i lavori sui beni culturali possano essere eseguiti da chi non abbia le specifiche qualificazioni richieste. Sostanzialmente per questo la Corte Costituzionale, con sentenza n. 91/2022, ha ritenuto del tutto legittimo il divieto dell’avvalimento e non quello del subappalto.

Chiaramente in un settore come quello in parola, il RUP ben potrà escludere o non autorizzare il subappalto, o il subappalto a cascata, ma lo dovrà fare con una motivazione convincente, alla luce dei parametri sopra riportati, perché la sua eventuale decisione si scontra con il principio eurounitario del favor partecipationis delle imprese, che ha un forte peso sul piatto della bilancia.

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  1. Passiamo ora a vedere cosa succede quando l’opera pubblica non è strumentale alla conservazione o alla valorizzazione del bene culturale, ma, viceversa, entra in conflitto con con esso: ci riferiamo, come anticipato, alla c.d. archeologia preventiva.

Le norme di riferimento sono gli articoli  39 (localizzazione e approvazione del progetto delle opere) e 41 (livelli e contenuti della progettazione).

Ad esse si aggiunge l’Allegato I.8 dove è disciplinato in modo dettagliato tutto il procedimento che  cerchiamo qui di sintetizzare a grandi linee.

Ci troviamo nella fase della progettazione, che  il nuovo codice ha ridotto, come noto, a due soli momenti: progetto di fattibilità tecnico-economica e progetto esecutivo.

In particolare, ci troviamo nella fase che precede la conferenza di servizi, deputata alla approvazione del progetto di fattibilità tecnico economica,  nel quale confluisce anche la valutazione dell’impatto ambientale.

Il procedimento si articola in un doppio passaggio, il primo, sempre necessario ed il secondo solo eventuale.

La prima fase riguarda l’accertamento, da parte del Sopraintendente,  della assoggettabilità alla verifica preventiva di interesse archeologico.

In questo stadio vengono, infatti, effettuate delle indagini preliminari sulle aree di localizzazione dell’opera, indagini che le stazioni appaltanti trasmettono al Sopraintendente, unitamente al progetto di fattibilità tecnico-economica.

Il Sopraintendente verifica se sussistono o non sussistono le condizioni per avviare la procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico e, in altri termini, si accerta se c’è un interesse e/o un rischio archeologico. Se c’è un interesse lo motiva e avvia il procedimento per la verifica preventiva dell’interesse archeologico.

E’ importante dire che la sua decisione è comunicata in conferenza di servizi e che la conferenza di servizi si perfeziona in questa maniera per quanto concerne i profili archeologici.

Quindi, in caso di apertura del procedimento di verifica vera e propria,  non si attende la relazione definitiva, in quanto non vi può più essere, secondo il Codice, un veto da parte della Sovrintendenza, ma solo la individuazione di misure idonee a tutelare il bene archeologico e a comporre il conflitto tra opera pubblica e tutela del bene culturale .

La verifica preventiva dell’interesse archeologico, eventualmente richiesta dalla Sovraintendenza, consiste in una indagine più approfondita che consta di carotaggi, ispezioni, scavi, campionatura dell’area ecc..

Entro 90 giorni dalla richiesta, il Sovraintendente deve redigere la relazione archeologica definitiva che, se necessario, prevede anche tutte le misure occorrenti per tutelare l’integrità, la conservazione e la valorizzazione dei reperti

A grandi linee, si possono avere tre tipi di esiti:

  1. a) lo scavo esaurisce direttamente l’esigenza di tutela e, detto in soldoni, non c’è bisogno di nulla di particolare;
  2. b) affiorano reperti che possono essere smontali e rimontati in un museo e la Sovraintendenza indica le misura da adottare;
  3. c) emerge un complesso archeologico la cui conservazione non può essere garantita se non mediante l’integrale mantenimento in sito. In questo caso tutte le prescrizioni sono incluse nel conseguenziale provvedimento di assoggettamento a tutela dell’area.

La procedura di verifica deve concludersi in ogni caso entro la data prevista per l’avvio dei lavori e giammai la Sopraintendenza può dare un parere negativo o dissentire dall’opera: quello che deve fare è trovare la soluzione tecnica migliore per la tutela del sito archeologico.

Ebbene, cosa dire?

Sicuramente rispetto al passato (e qui facciamo riferimento già al D.Lgs. n.50/2016) l’archeologia preventiva è un grande passo in avanti.

E’ stato fondamentale, peraltro, prevedere di anticipare alla fase della progettazione la tutela del bene archeologico, perché succedeva che reperti affiorassero in fase di esecuzione delle opere, la Sovraintendenza intervenisse con i suoi veti e l’opera pubblica venisse bloccata.

L’istituto, però, presta il fianco ad alcune critiche.

Il potere della Sopraintendenza viene ridimensionato e incapsulato nel c.d. dissenso costruttivo. E ricordiamo qui la sentenza n. 3631/2023 del TAR Lazio che ha argomentato come la Soprintendenza non possa emettere un diniego all’intervento edilizio senza indicare le possibili soluzioni edificatorie in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non deve, dice testualmente la sentenza, necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati ad una concreta collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici del bene paesaggio.

Per cui anche nel caso in cui il procedimento di verifica preventiva dell’interesse archeologico avesse come esito la scoperta di un sito di particolare rilevanza, la Sovrintendenza potrebbe solo indicare le misure mitigatrici, ovvero le soluzioni tecniche, in grado di rendere possibile l’opera pubblica, in tempi relativamente ristretti.

Ebbene, è stato osservato come la previsione della valutazione dell’interesse archeologico in sede di conferenza di servizi, e l’assegnazione di termini brevi per trovare soluzioni tecniche, a volte molto complesse, in grado di armonizzare i due interessi in conflitto, rischia di far riemergere, a posteriori, ovvero in sede di esecuzione dell’opera, problemi e costi aggiuntivi non previsti né prevedibili in sede di progettazione.

I soggetti destinatari della disciplina hanno, quindi, puntualmente osservato che le predette criticità potrebbero essere superate riprogrammando meglio l’intervento della Sovrintendenza nell’ambito della fase di progettazione dell’opera, ovvero anticipandolo al momento della redazione del DOCFAP (documento di fattibilità delle alternative progettuali).

In questa fase ancora più anticipata dell’iter di progettazione della opera pubblica, la Sopraintendenza potrebbe, come doveroso, esplicare con pienezza tutti i poteri che le sono propri per la più efficace tutela del patrimonio culturale, evitando anche il sorgere postumo di problematiche, durante l’esecuzione dell’opera, che alla fine possono rallentare, invece di velocizzare, la sua realizzazione.

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Concludiamo con un cenno anche all’art. 57 del Codice, dove, al primo comma, si pone particolare attenzione proprio al settore dei beni culturali e del paesaggio.

Si tratta di una norma trasversale che fa obbligo alle amministrazioni di inserire negli atti di gara clausole di inclusione sociale e che impone di rispettare criteri di sostenibilità energetica ed ambientale.

Pensiamo, per esempio, agli eventi culturali (mostre, festival, avvenimenti culturali, eventi musicali): è fatto onere alle pubbliche amministrazioni di rendere l’evento o la manifestazione culturale inclusivi e sostenibili, lavorando in anticipo sul progetto e andando a scegliere, tra le diverse alternative a disposizione per la realizzazione del progetto, quelle in grado di tutelare la stabilità occupazionale, il contrasto al lavoro irregolare, la parità di genere, le pari opportunità generazionali, l’inclusione lavorativa e poi, comunque, la sostenibilità energetica ed ambientale.  Questi aspetti devono essere garantiti in ogni fase dell’evento, dall’inizio alla fine:  progettazione, promozione e comunicazione, realizzazione e attività post evento.

L’art. 57 è, come detto, norma trasversale, in quanto è collocata nella parte del Codice dedicata agli istituti e alle clausole comuni dei contratti, applicabile quindi, salvo eccezioni, a tutti gli appalti.

Però, con riferimento, al primo comma, ovvero quello relativo alle clausole sociali, si pone la questione se il riferimento testuale ai “bandi di gara”e agli “avvisi” renda applicabile la norma anche alle procedure di affidamento diretto, dove non vi sono né bandi nè avvisi.

Il MIT, con il parere n. 2083/2023, ha precisato che il dato testuale induce a escludere l’obbligo di applicazione delle clausole sociali agli affidamenti diretti.

Quindi, considerato che gran parte degli appalti, dopo l’innalzamento dei limiti a 150 mila euro, verranno assegnati con affidamento diretto, vi è qui una contrazione sia delle garanzie di inclusione sia delle disposizioni volte a contrastare il lavoro irregolare, attraverso la previsione che vi siano le stesse tutele economiche e normative sia per i lavoratori in subappalto che per  i dipendenti dell’appaltatore.

Si tratta, quindi, di un dato negativo per il settore dei beni culturali, sul quale proprio l’art. 57, primo comma, aveva richiamato in particolare l’attenzione, anche perché la reintroduzione del criterio del massimo ribasso può ulteriormente spingere all’ingiù le retribuzioni per i prestatori di lavoro del settore.