GIP di Milano, sentenza 16 novembre 2020, n. 1940

Emergenza sanitaria COVID-19 – Dichiarazione di falsa intenzione riportata nell’autocertificazione – Reato ex art. 483 c.p. – Falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico –  Non sussiste

GIP di Milano, sentenza 16 novembre 2020, n. 1940
Giudice Crepaldi

Motivi della decisione

In data 3.9.2020 il Pubblico Ministero ha chiesto l’emissione di decreto penale di condanna nei confronti dell’odierno imputato in relazione al reato lui ascritto in rubrica.
Dall’annotazione dei Carabinieri di (omissis…) 15.4.2020 si evince come l’imputato – in data 31.3.2020 alle ore 13.10 – sia stato fermato a bordo di un autocarro mentre percorreva via (omissis…) nel comune di (omissis…) e sottoposto a controllo.
Richiesto di predisporre l’autodichiarazione concernente le ragioni del suo allontanamento dalla propria abitazione, in relazione alle misure per il contenimento della pandemia da COVID-19 di cui al D.L. 25.3.2020 n. 19, l’imputato ha dichiarato di essere “titolare della (omissis…) Mi occupo di assistenza caldaie. Mi stavo recando in (omissis…) c/o un mio collega (omissis…) ritirare dei pezzi di ricambio per caldaia. Poi mi sarei recato in (omissis…) per un lavoro. Svolgo la mia attività da solo”.
Il (omissis…) sentito a SIT dai Carabinieri, ha dichiarato in sintesi che il (omissis…) si sarebbe effettivamente recato presso la sua abitazione per motivi di lavoro ma verso le 11.30 e che questi se ne sarebbe allontanato un’ora dopo circa. Ha riferito, ancora, di essere certo che il (omissis…) abbia lasciato la sua abitazione prima delle 13.15, ora nella quale ha pranzato con i figli.
Gli operanti hanno, inoltre, segnalato come la direzione dell’autocarro condotto dal (omissis…) sia opposta a quella che sarebbe servita a raggiungere l’abitazione del (omissis…).
Nessun dubbio può porsi, quindi, circa il fatto che l’intenzione dichiarata dal (omissis…) nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria.
Va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione.
L’art. 483 c.p., infatti, incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Il riferimento ai “fatti” quale oggetto della dichiarazione del fatto si ripropone (i) all’art. 46 D.P.R. 445/2000 il quale consente di comprovare con una semplice dichiarazione del privato “in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti”; (ii) al comma 1 dell’art. 47, il quale consente al privato di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto “fatti che siano a conoscenza dell’interessato” (comma 1); nel comma 2 della disposizione richiamata che si riferisce, quale contenuto alternativo della dichiarazione del privato, agli “stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza”; infine, al terzo comma del citato art. 47, il quale prevede che “nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’art. 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.
Orbene, è pacifico in giurisprudenza1 che siano estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino “fatti” di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi.
In questo senso depongono, del resto, (i) il dato testuale, giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post; (ii) il profilo teleologico, giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al p.u. in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto; (iii) in un’ottica sistematica, la stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i “fatti” sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione.
Ne discende che mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de qua, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Come recentemente osservato da autorevole dottrina, il nostro ordinamento non incrimina qualunque dichiarazione falsa resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio ma costruisce i reati di falso secondo una sistematica casistica. Ne consegue che il rilievo della falsa dichiarazione è legato all’individuazione di una specifica norma che dia rilevanza al contesto e alla singola dichiarazione.
Per le ragioni appena espresse la dichiarazione di una mera intenzione nell’ambito di un modulo di autocertificazione non può rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 493 c.p., limitato ai soli “fatti” già occorsi.
Per le medesime considerazioni la dichiarazione in parola non può assumere rilievo neppure se incorporata – come nel caso di specie – in un’annotazione di P.G. Anzi, in relazione a tale aspetto occorre considerare – quale ulteriore ragione per escludere la tipicità della condotta – che il contenuto della dichiarazione non rientrerebbe tra i “fatti cui è destinato a provare la verità” neppure qualora concerna un fatto già accaduto, atteso che l’annotazione assumerà rilievo probatorio solo in relazione al fatto storico che tali dichiarazioni sono state rilasciate e non certo alla verità intrinseca delle stesse.
Neppure potrebbe ritenersi integrato l’art. 495 c.p., risultando l’attestazione compiuta dal (estranea al novero delle dichiarazioni espressamente indicate dalla norma, vale a dire l’identità, lo stato o altre qualità della propria o altrui persona.
Nel caso di specie, (omissis…) non ha certo attestato un fatto già accaduto nella realtà esteriore ma si è limitato a dichiarare una propria volontà, che si è rivelata ex post priva di riscontro. Ne consegue l’impossibilità, in relazione a quanto si è detto, di ritenere integrati gli estremi del delitto di cui all’art. 483 c.p. e di ogni altro reato in materia di falso, ferma l’eventuale rilievo quale autonomo illecito amministrativo ex art. 4 D.L. n. 19/2020.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra, si impone l’assoluzione dell’imputato ex art. 129 c.p. perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

visto l’art. 129 c.p.p.
ASSOLVE
Ma. (omissis…) dal reato lui ascritto perché il fatto non sussiste
Manda la Cancelleria per la comunicazione alle parti.
Cfr. Corte di Cassazione Penale, sez. V, 3 dicembre 1982, n. 2829;Corte di Cassazione Penale, sez. III, 12 ottobre 1982, n. 10.