Mancata conferma e revoca degli incarichi nella dirigenza sanitaria

dell’Avv. Giuseppina Schettino

Parlare di pubblica amministrazione per obiettivi e risultati vuol dire non tralasciare di accennare alla dirigenza sanitaria. Perchè la dirigenza sanitaria opera in un terreno avanzato di sperimentazione; un terreno nel quale l’innesto, anche solo concettuale, della nozione privatistico-capitalistica di azienda su quella pubblico-assistenzialistica, in relazione alla erogazione di servizi finalizzati al valore salute, è stato ed è, indubbiamente, un campo di sperimentazione giuridica, i cui frutti dipendono dagli indirizzi strategici operati a livello regionale, largamente influenzati dalle scelte politico/organizzative di fondo ciascuna regione, con il correlato effetto di una differenziazione territoriale dei risultati e di un federalismo di fatto che spesso mette in crisi la garanzia di uniformità dei LEA (livelli essenziali di assistenza).

Il fine del servizio sanitario nazionale, di cui si fa carico – sul piano operativo – la dirigenza sanitaria, non è – né potrebbe essere – quello in senso stretto dell’utile economico dell’azienda, ma piuttosto quello della economicità dei mezzi e della razionalizzazione dei costi per la realizzazione di un valore non quantificabile come la salute. Questo è un diritto considerato <<il presupposto d’ogni altro diritto della persona, fino a coincidere con la persona in quanto tale e con il valore della sua vita>> e <<rappresenta uno dei più complessi dell’intero edificio costituzionale>> per la sfera assai ampia di materie che esso coinvolge>>: non solo la salute in senso stretto nella quale è compresa sia la cura del malato e la sua assistenza, sia la prevenzione delle malattia, ma anche igiene, edilizia, disciplina del lavoro, sorveglianza sugli alimenti, tutela della quiete pubblica, etc..

Insomma, il fine istituzionale delle aziende sanitarie è particolarmente complesso, anche perché:

  • l’azienda agisce in regime di concorrenza con le aziende private;
  • eroga prestazioni a tariffe predeterminate, a differenza delle aziende private, che prediligono le prestazioni maggiormente redditizie, lasciando alle aziende pubbliche quelle nelle quali i ricavi non coprono i costi.

Anche questo aspetto (rapporto tra azienda pubblica e concorrenza) è risolto in maniera diversa dal governo delle regioni: vi sono regioni che valorizzano l’offerta dei servizi e delle prestazioni delle aziende private recuperando, in questo modo, livelli più alti di assistenza; mentre ve ne sono altre che per raggiungere i medesimi obiettivi puntano solo sul sistema pubblico. D’altro canto sulla base dell’art. 117 della Costituzione rientra nella competenza esclusiva delle regioni l’organizzazione in materia di assistenza sanitaria, ivi compresa la regolamentazione del rapporto con la dirigenza sanitaria, con la conseguenza, che è bene evidenziare subito, che i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro costituiscono un importantissimo momento di raccordo a livello nazionale.

La regione individua gli obiettivi concreti della sanità e organizza il servizio sanitario, determina diverse soluzioni in materia di regolamentazione del mercato e della concorrenza nel settore sanitario, gestisce i finanziamenti centrali, con effetti, invero, a volte antitetici sulla erogazione dei livelli essenziali di assistenza (si pensi al caso Di Bella), affronta, facendo i conti con il proprio bilancio, il problema – per i quale è stato indetto uno sciopero generale della dirigenza sanitaria a fine novembre – della stabilizzazione del c.d. precariato dirigenziale il quale, attraverso l’ineluttabile processo di stabilizzazione, ha in parte stravolto il modello di accesso alla dirigenza sanitaria per concorso prefigurato nella normativa di riferimento (e cioè d.lgvo 165/2001; dlgvo 502/1999 e succ. modifiche, nonché CCNL).

La regione nomina i direttori generali delle asl indicando, nel relativo atto di nomina, gli obiettivi di salute e di funzionamento che egli si impegna a perseguire. Il direttore generale della asl trasfonde gli obiettivi assegnati nell’atto aziendale che disciplina in concreto, per ogni singola asl, il funzionamento e l’organizzazione e contiene una previsione sugli incarichi dirigenziali da conferire ai medici dell’azienda sanitaria.

L’azienda, sotto il profilo organizzativo, riflette una configurazione (adhocrazia) articolata secondo costellazioni orizzontali di lavoro, connotate da elevata competenza settoriale, potere gestorio autonomo e decentrato, minima differenziazione verticale, forte flessibilità. Questo schema organizzativo, come vedremo, rispecchia la ragione stessa del meccanismo degli incarichi dirigenziali in funzione della peculiarità della attività sanitaria. Prendiamo ad esempio la struttura del dipartimento che consente la condivisione logistica degli spazi, delle risorse umane (mediche, infermieristiche, tecnologiche). la razionalizzare dei costi fissi, il massimo della efficienza medica in un determinato settore clinico; esso presuppone, perciò, la stretta collaborazione, su di un piano orizzontale, di competenze poteri e responsabilità da parte di ciascuna articolazione organizzativa di cui si compone. Il dipartimento, costituito da unità operative interdipendenti ed affini, consente di realizzare percorsi diagnostici più completi ammortizzando i costi derivanti dalla elevata specializzazione delle competenze. I dipartimenti possono essere strutturati seguendo vari criteri: possono riguardare determinate fasi della vita umana, come quelle relative alla gestazione e alla procreazione (dipartimento per la salute della donna e del bambino) ed accorpare, così, tutte le specialità necessarie per dare una risposta globale e multi disciplinare alla persona.

Il direttore del dipartimento ha la gestione complessiva del budget ed ampi spazi di autonomia organizzativa; ciascun dirigente responsabile  gode di una certa area di potere gestorio commisurata al tipo di articolazione alla quale presiede.

Ogni dirigente è, quindi, posto nell’ambito della organizzazione della azienda in una posizione alla quale corrispondono un fascio di responsabilità, una determinata retribuzione economica e, soprattutto, l’impegno a perseguire gli obiettivi (ed è proprio in relazione al raggiungimento o al mancato raggiungimento degli obiettivi che trovano giustificazione, come vedremo, i provvedimenti di revoca o di mancata conferma degli incarichi) che sono indicati all’atto dell’incarico; detti obiettivi devono essere smart e cioè specifici – misurabili – accettabili- realistici e temporizzati.

L’autonomia del dirigente, in punto di gestione e di responsabilità, riguarda anche i rapporti con il direttore generale della asl. Questi riveste il ruolo di vertice strategico ed è responsabile della gestione complessiva dell’azienda, nomina il direttore sanitario ed amministrativo e redige, come abbiamo visto, l’atto aziendale. Ma ogni dirigente di struttura, come si è detto, ha un suo ambito di responsabilità in ordine agli obiettivi fissati nell’atto aziendale per cui il direttore generale non delega i poteri alla dirigenza sottostante. Solo la posizione del direttore sanitario ed amministrativo può assimilarsi a quella di coadiutori e quindi qui può effettivamente ravvisarsi un rapporto di delega e di sott’ordinazione al direttore generale (art. 3, comma 1, quater, 502/1992).

Una volta delineato, con grande approssimazione, il tipo di struttura organizzativa della azienda sanitaria, si rileva come la funzionalità stessa dell’azienda sia strettamente ancorata ad un sistema costante di verifica e valutazione dei dirigenti in relazione alla concreta realizzazione degli obiettivi previsti all’atto dell’incarico: in base a detto meccanismo perenne di verifica e valutazione dell’operato dei dirigenti vengono assegnati gli incarichi e la retribuzione di risultato ovvero vengono disposti declassamenti, revoche o mancate conferme degli incarichi stessi.

Il rapporto dirigenziale, come sappiamo, si costituisce col superamento di pubblico concorso (che rappresenta un presupposto indispensabile per la successiva attribuzione degli incarichi a tempo) e l’incarico a tempo si innesta – attraverso la stipulazione di un contratto di natura privatistica, nel quale sono definiti gli obiettivi che il dirigente deve perseguire – sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del dipendente con l’amministrazione sanitaria. Ai fini della individuazione della disciplina specifica degli incarichi occorre fare riferimento agli articoli 15 bis e 15 ter del dlg.vo n. 502/92, nei Contratto Collettivi di Lavoro e nell’atto aziendale.

Come  abbiamo gia anticipato la attribuzione degli incarichi di gestione o consulenza è strettamente legata alle previsioni, soprattutto di tipo finanziario, indicate nell’atto aziendale.

Le tipologie degli incarichi sanitari sono: direzione di struttura complessa (che prevede, per la sua assegnazione, la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale dell’avviso dell’avvio della procedura e la selezione sulla base di una rosa di candidati previamente selezionati da una commissione ad hoc nominata dal direttor generale); direzione di struttura semplice (gli incarichi di struttura semplice sono conferiti su valutazione positiva del collegio tecnico e su proposta del responsabile della struttura di appartenenza); attività di natura professionale anche di alta specializzazione, consulenza, studio e ricerca, ispettive di verifica e di controllo; attività di natura professionale conferibili al dirigente con meno anni di attività

Al sanitario di prima assunzione vengono assegnati compiti di natura tecnico-professionale <<con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione>>.

L’esito positivo dell’attività (da parte di appositi organi preposti alla valutazione ai quali accenneremo tra breve) svolta per cinque anni è la base per la progressione professionale del dirigente sanitario e per l’attribuzione di incarichi di funzioni di alta specializzazione, consulenza studio e ricerca, ispettive, di controllo, di ispezione ovvero di direzione di strutture semplici. Di qui segue la possibilità di accedere agli incarichi di direzione di strutture complesse la cui assegnazione, come abbiamo visto, è circondata da maggiori garanzie ed è di competenza del direttore generale.

La valutazione dei risultati dei dirigenti viene riportata nel fascicolo del personale e rappresenta la base per l’assegnazione di ulteriori incarichi, per conferme, ovvero per revoche o mancate conferme.

La revoca e la mancata conferma dell’incarico dirigenziale costituiscono gli strumenti giuridici attraverso i quali l’azienda realizza i propri scopi: sono gli strumenti per controllare, in concreto, la capacità di ciascun dirigente di mettere a segno gli obiettivi fissati all’atto dell’incarico.

La valutazione negativa del dirigente sfocia nella c.d. responsabilità dirigenziale che, a seconda della gravità del giudizio negativo espresso sull’operato del dirigente, conduce a differenti conseguenze quali: la mancata conferma dell’incarico; la revoca dell’incarico, il recesso o il licenziamento.

Poiché la responsabilità dirigenziale si verifica quando il dirigente non raggiunge gli obiettivi assegnati, indipendentemente dall’accertamento del grado di diligenza impiegato (per cui detta responsabilità viene ricondotta alla responsabilità oggettiva), unico mezzo di difesa per il professionista, colpito da un provvedimento di revoca o mancata conferma dell’incarico avvertito come ingiusto e lesivo, è la verifica del rispetto, da parte dell’amministrazione, di tutte le garanzie previste per lo svolgimento corretto della attività valutativa.

Lo stretto intreccio esistente tra criteri di verifica e di valutazione dei dirigenti, da un lato, e i conseguenti possibili provvedimenti di revoca o mancata conferma degli incarichi, dall’altro, impone di menzionare le regole fondamentali del sistema permanente di monitoraggio del dirigente sanitario.

Secondo il Contratto Collettivo Nazionale del novembre 2005, che prevede un sistema semplificato di valutazione rispetto al passato, vi sono due momenti di verifica: la verifica annuale e la verifica al termine dell’incarico. Organi preposti alla valutazione sono il collegio tecnico, al quale compete la verifica e la valutazione delle attività professionali del medico ed il nucleo di valutazione, preposto alla verifica e valutazione annuale dei risultati.

Ma vediamo da vicino cosa dicono i contratti collettivi, atteso che l’art. 15 del d.lgvo n. 502/1992 rinvia alla contrattazione nazionale collettiva per la previsione dei criteri generali per la graduazione delle funzioni dirigenziali, nonché per l’assegnazione, valutazione e verifica degli incarichi dirigenziali.

L’attività dei dirigenti sanitari è caratterizzata dall’autonomia tecnico professionale, i cui ambiti di esercizio, attraverso successivi momenti di valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati.

La valutazione dei dirigenti – che è diretta alla verifica degli obiettivi assegnati e della professionalità espressa – è caratteristica essenziale del rapporto di lavoro dei dirigenti medesimi.

E’ di fondamentale importanza, ai fini del controllo di legittimità sui provvedimenti di revoca o di mancata conferma degli incarichi, la previsione per la quale le suddette valutazioni, da parte degli organi competenti, sono ancorate a parametri oggettivi: le aziende sono obbligate a definire i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e valutazione:

  • dei costi, dei rendimenti e dei risultati;
  • dell’attività professionale svolta dai dirigenti,

in relazione ai programmi e obiettivi da perseguire correlati alle risorse umane, finanziarie e strumentali effettivamente disponibili,

  1. stabilendo le modalità con cui diversi processi di valutazione si articolano;
  2. garantendo in ogni caso, una seconda istanza di valutazione.

Ora, collegare la valutazione dei dirigenti a parametri tecnici oggettivi per il monitoraggio dei risultati della loro gestione e disciplinare analiticamente il relativo procedimento significa fornire uno strumento concreto di garanzia e difesa del dirigente nella ipotesi di contestazione del provvedimento di revoca o di mancata conferma dell’incarico; qui vi è la concreta piattaforma tecnico – giuridica sulla quale può operare un consulente tecnico o un perito di parte, chiamato ad esprimere un parere innanzi all’autorità giudiziaria eventualmente adita.

Al fine di evitare che la discrezionalità insita nel provvedimento nel quale sfocia il processo di valutazione possa scadere nell’arbitrio, le norme prevedono che le aziende adottino preventivamente i criteri generali che informano:

  1. a) i sistemi di valutazione delle attività professionali, delle prestazioni e delle competenze organizzative dei dirigenti;
  2. b) i relativi risultati di gestione.

I criteri sono oggetto di concertazione con le OO.SS; le procedure di valutazione sono importate alla:

  1. trasparenza dei criteri e dei risultati;
  2. adeguata informazione e partecipazione del valutato al procedimento tramite la comunicazione dell’avvio del procedimento e la garanzia del contraddittorio;
  3. diretta conoscenza dell’attività del valutato da parte del soggetto che in prima istanza effettua la proposta di valutazione;
  4. commisurazione degli effetti negativi alla posizione rivestita e all’entità degli scostamenti rilevati.

Quindi, in prima istanza (ovvero come proponente) il dirigente è valutato dal dirigente sovraordinato, in ossequio al principio di diretta conoscenza dell’attività del valutato da parte del valutatore.

In seconda istanza la valutazione sarà fatta dal  collegio tecnico e dal Nucleo di Valutazione. Il primo verifica e valuta:

  1. i dirigenti alla scadenza dell’incarico conferito con riferimento precipuo alle attività professionali svolte ed ai risultati raggiunti;
  2. i dirigenti di nuova assunzione al termine del quinquennio di servizio;
  3. i dirigenti che raggiungono l’esperienza professionale ultraquinquennale in relazione all’indennità di esclusività;
  4. i dirigenti dopo la seconda valutazione consecutiva negativa da parte del nucleo di valutazione, in caso di ipotesi di revoca dell’incarico.

Il nucleo di valutazione verifica e valuta annualmente:

  1. i risultati di gestione dei responsabili di struttura;
  2. i risultati raggiunti dai dirigenti, in relazione egli obiettivi affidati, ai fini della retribuzione di risultato.

L’attività del nucleo di valutazione ha ad oggetto l’attività più prettamente manageriale del medico: opera, infatti, nell’ottica della gestione e valuta la capacità di utilizzo delle risorse assegnate al dirigente ai fini del raggiungimento degli obiettivi concordati.

La valutazione positiva del nucleo di valutazione determina  l’attribuzione della retribuzione di risultato e concorre a formare la valutazione da effettuare al termine dell’incarico.

La valutazione negativa del nucleo di valutazione può determinare, invece, la perdita della retribuzione di risultato; la revoca dell’incarico (ma solo a partire dalla seconda consecutiva e, comunque, dopo la seguito di verifica del Collegio Tecnico); l’attribuzione di un incarico di minor livello e/o valore economico.

La valutazione espressa dal Collegio Tecnico tiene conto di elementi riguardanti capacità  più prettamente professionali: relazionali; operative; di gestione delle risorse umane; del governo clinico; di innovazione; di rispetto degli obblighi formativi; di osservanza obblighi prestazionali; etico – deontologiche ed altre previste nell’atto aziendale.

La valutazione positiva del collegio tecnico determina il realizzarsi, a seconda della posizione di provenienza, delle condizioni di incarichi di maggior rilievo gestionale ed economico; il passaggio alla fascia superiore di indennità di esclusività e, per i dirigenti neo assunti, al termine del quinto anno, la rideterminazione della retribuzione di posizione minima contrattuale.

La valutazione negativa del collegio tecnico determina a carico del dirigente di struttura complessa  la mancata conferma nell’incarico ovvero il mantenimento in servizio con altro incarico di minor valore; la perdita dell’indennità di struttura complessa se attribuita; l’attribuzione dell’indennità di esclusività della fascia immediatamente inferiore.

La valutazione negativa del collegio tecnico determina per gli altri dirigenti: la mancata conferma nell’incarico; l’affidamento di un incarico professionale di minor valore; il ritardo di un anno nell’attribuzione della fascia superiore di indennità di esclusività, se da attribuire nel medesimo anno.

La valutazione negativa del collegio tecnico determina per i dirigenti con meno di 5 anni il ritardo di un anno nell’eventuale conferimento di un nuovo incarico tra quelli di maggior rilievo.

Se la valutazione negativa non è tale da sfociare nel recesso (caso nel quale l’azienda deve osservare una serie di garanzie indicate nei stessi contratti collettivi) è tuttavia garantita la componente fissa della retribuzione relativa alla posizione minima contrattuale.

Mentre secondo il sistema normativo riferito alla dirigenza generale (dlgvo 165/2001, così come modificato dalla legge 145/2002) per il conferimento di ciascun incarico di funzioni dirigenziali si tiene conto delle attitudini e delle capacità professionali del dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nelle direttive e negli atti di indirizzi, nei CCNL per la dirigenza medica, sanitaria ed amministrativa, i risultati conseguiti e accertati attraverso l’attività valutativa costituiscano elemento necessario e fondamentale per la conferma dell’incarico o per il conferimento di un incarico superiore (ALES).

La valutazione negativa dell’attività del dirigente sfocia nell’accertamento della responsabilità dirigenziale, con conseguenze diverse a seconda della gravità del giudizio negativo e del tipo di giudizio negativo espresso:

mancata conferma dell’incarico;

revoca dell’incarico;

recesso o licenziamento.

Il d.lgvo n. 502/1992 (art. 15 ter  comma 3)  stabilisce che gli incarichi sono revocati  secondo le procedure previste dalle disposizioni vigenti e dai contratti collettivi nazionali di lavoro in caso di inosservanza delle direttive impartite dalla direzione generale dalla direzione del dipartimento; mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati; responsabilità grave e reiterata; in tutti gli altri casi previsti dai contratti di lavoro. Nei casi di maggiore gravità il direttore generale può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Occorre, a questo punto, accennare alla differenza tra responsabilità disciplinare, dirigenziale ed amministrativa, tenendo per fermo che le stesse possono coesistere.

La responsabilità amministrativa può essere diretta o indiretta a seconda che il dirigente abbia procurato, in modo diretto o indiretto, un danno risarcibile alla amministrazione. I casi di responsabilità indiretta sono per lo più dovuti ad errori commessi nell’ambito dello svolgimento di attività clinica, diagnostica e terapeutica: ad esempio errori nella scelta dell’intervento o della terapia (ricordiamo che il primario è responsabile dell’operato del personale medico ed infermieristico assegnato alla struttura e risponde, avendo un dovere di super visione, in caso di errori o omissioni commessi sotto la sua direzione). La responsabilità è diretta, ad esempio, in caso di ricoveri non necessari o prolungati, acquisto di macchinari che non funzionano o addirittura non servono, spreco di medicinali, avaria degli stessi per cattiva conservazione imputabile al personale e via di seguito.

La responsabilità disciplinare, invece, presuppone una condotta illecita e colposa che incide sul vincolo fiduciario tanto da rappresentare una giusta causa di licenziamento.

La responsabilità dirigenziale, che qui interessa perché determina la revoca dell’incarico, nelle ipotesi tassative indicate dalla legge, si distingue dalla responsabilità disciplinare, che determina il licenziamento del dirigente, in quanto mentre quest’ultima va ad intaccare il legame sottostante di lavoro subordinato alle dipendenze della pubblica amministrazione, la prima dovrebbe esprimere la mera inidoneità del medico a riveste l’abitus del manager relativamente ad un determinato tipo di attività dirigenziale nei casi di incarichi di gestione. In questi casi la responsabilità prescinde dalla condotta colposa o dolosa del dirigente, ma segue solo alla obiettiva constatazione del mancato raggiungimento degli obiettivi.

Nel caso della responsabilità disciplinare i fatti gravi, in quanto imputabili alla condotta colposa e dolosa del dirigente, azzerano l’elemento fiduciario del rapporto realizzando una giusta causa di licenziamento.

La televisione e la stampa nazionale diedero ampio risalto, trattandolo come un caso emblematico della cattiva sanità in Italia, al  procedimento a carico di un dirigente di struttura complessa (capo settore della salute mentale, istituzionalmente preposto alla vigilanza e ai controlli sulle cliniche convenzionate) che autorizzava fatture di pagamento a favore di una clinica convenzionata (Villa Stagno) garantendo, attraverso la sua sottoscrizione, che erano stati effettuati i controlli sanitari, che invece erano stati del tutto omessi; permettendo, così, alla casa di cura convenzionata di incassare circa 12 miliardi di vecchie lire all’anno. Un bliz della polizia evidenziò che la clinica non solo era fatiscente ma teneva i malati in condizioni disumane. Il dirigente si difese in giudizio sostenendo che la misura adottata dalla asl (licenziamento) era sproporzionata e che, a tutto concedere, poteva farsi luogo alla revoca dell’incarico dirigenziale, non essendovi elementi di colpevolezza da parte sua. Il Tribunale di Palermo invece ravvisò nel comportamento tenuto dal sanitario (che aveva certamente anche mancato anche di perseguire gli obiettivi di qualità della assistenza e di appropriatezza delle prestazioni) la colpevole condotta del dirigente, il quale non aveva vigilato e controllato l’attività del capo dei servizi; l’inadempimento era di proporzioni tali da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e da legittimare ampiamente il datore di lavoro, nella persona del direttore generale, al recesso. La pronuncia del Tribunale traccia in concreto la differenza tra recesso, che segue l’accertamento della responsabilità disciplinare, e la revoca dell’incarico, che segue la verifica della responsabilità dirigenziale. Quest’ultima avrebbe potuto trovare giustificazione  solo nella ipotesi di mero mancato raggiungimento degli obiettivi: ovvero nel caso di mancato superamento del c.d. residuo manicomiale e cioè nell’aver consentito una gestione meramente custodialista della casa di cura.

In un altro caso, la Corte di appello di Firenze accertava la responsabilità disciplinare di un dirigente medico che ripetutamente induceva i pazienti a non avvalersi delle strutture e delle professionalità aziendali, adducendo le lunghe liste d’attesa e l’inadeguatezza del personale: anche qui è chiaro l’inadempimento grave, tale, cioè, da incrinare il rapporto fiduciario ed giustificare il licenziamento del dirigente.

Vale la pena rammentare, a proposito del recesso, che nelle ipotesi di licenziamento illegittimo la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la tutela reale reintegratoria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La Suprema Corte, infatti, nel tracciare la differenza tra la dirigenza pubblica e quella privata, afferma che l’art. 21 del t.u. sul pubblico impiego dispone, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, alcune conseguenze che attengono all’incarico (impossbilità di rinnovo o revoca) e non al rapporto sottostante:  nella dirigenza pubblica vi è <<una duplicità di piani, quello del rapporto di lavoro fondamentale e quello del concreto incarico dirigenziale che determina una scissione ignota al diritto privato fra l’acquisto della qualifica di dirigente con rapporto a tempo indeterminato ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali a tempo>>.

Ma il dirigente è pur sempre un impiegato pubblico e come tale deve godere del principio di stabilità dell’impiego di cui beneficiano gli altri impiegati pubblici. Sicchè, in forza del rinvio operato dall’art. 51 del T.U. allo Statuto dei lavoratori (L. 300 del 1970), a loro si applica l’art. 18 e la tutela reintegratoria.

Spesso consegue alla revoca o alla mancata conferma dell’incarico il demansionamento del dirigente.

Sul punto dobbiamo innanzitutto dire che il T.U. sul pubblico impiego, il dlvo 502/1992 ed i CCNL stabiliscono l’inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. (che tutela il contenuto di professionalità acquisita nel passaggio da un compito ad un altro) alla disciplina degli incarichi: questa previsione impedisce ai dirigenti di invocare la stabilità e l’intangibilità dell’incarico. Certamente, quindi, deve escludersi l’esistenza di un diritto del dirigente alla conservazione di un incarico già rivestito. Può tuttavia trovare applicazione la tutela della aspettativa all’assegnazione  di un determinato incarico ed allora può farsi valere la eventuale  violazione dei criteri di assegnazione degli incarichi, fissati nell’atto aziendale, e le norme sulla buona fede e la correttezza.

Alcuni autori (MAZZOTTA) hanno messo in luce che l’inoperatività dell’art. 2103 c.c non riguarda solo il  passaggio da un incarico all’altro ma anche il rapporto nel suo corso: tuttavia il principio della sostanziale intercambiabilità di funzioni del dirigente ovvero della equivalenza delle mansioni dirigenziali trova un limite nelle ipotesi di drastica riduzione dei compiti. In questo caso viene in rilievo senz’altro la responsabilità contrattuale dell’azienda.

Sulla esatta portata dell’art. 2103 nei confronti della dirigenza il Tribunale di Roma, (sent. n. 236027/01) spiega che <<l’inapplicabilità dell’art. 2103 nei confronti del dirigente pubblico deve ritenersi operante nel senso che il legislatore ha voluto permettere che al dirigente possano essere attribuiti incarichi diversi, di minore o maggiore portata, ma certamente non ha voluto sopprimere il diritto di tale categoria di lavoratori allo svolgimento dell’attività lavorativa. Le amministrazioni lasciando il ricorrente in uno stato di totale inattività hanno posto in essere un inadempimento contrattuale violando non solo l’art. 2103 ma anche l’art. 2087 che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore; il danno alla professionalità e all’indennità personale del lavoratore può essere accertato attraverso presunzioni semplici>>.

Torniamo ora alla revoca dell’incarico come conseguenza della responsabilità dirigenziale.

Ai sensi dell’art. 15 ter del d.lgvo 502/1992, la revoca può trovare giustificazione – e questa ipotesi precede, nella formulazione della norma, quella relativa al mancato raggiungimento degli obbiettivi – in caso di inosservanza delle direttive impartite dalla direzione generale o dalla direzione del dipartimento.

Il potere di revoca esprime in questi casi il potere di controllo sulla dirigenza sanitaria da parte del direttore generale che fa da argine alla autonomia assegnata di ciascun dirigente secondo lo schema organizzativo che abbiamo visto all’inizio.

Certo è che se determinati risultati, in termini di economicità e di efficienza dei servizi sanitari, dovessero, in ipotesi, realizzarsi in virtù della disapplicazione, da parte del dirigente, di direttive ritenute inadeguate, l’eventuale revoca avrebbe un significato meramente punitivo e sarebbe cioè sine causa: in sostanza vi deve essere coerenza tra le cause che possono determinare la rimozione dall’incarico del dirigente (violazione delle direttive/mancato raggiungo degli obiettivi), atteso che le direttive non possono che essere strumentali al raggiungimento degli obiettivi indicati nell’atto aziendale.

Abbiamo più volte detto che la responsabilità dirigenziale prescinde dall’accertamento della colpa. Se il raggiungimento degli obiettivi fosse dedotto nell’oggetto della prestazione contrattuale del dirigente, dovremmo coerentemente ritenere che il mancato raggiungimento degli obiettivi equivarrebbe ad inadempimento, salva la prova della non imputabilità dello stesso secondo le regole dell’art. 1218 c.c. (il debitore, che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità a lui non imputabile).

Ma, applicando l’art. 1218 c.c., per il quale all’inadempimento consegue il risarcimento del danno (in quanto in nell’ottica strettamente sinallagmatica la retribuzione rappresenta il controvalore economico di ciò che è dedotto in contratto), difficilmente il dirigente sottoscriverebbe il contratto che accede al rapporto di pubblico impiego: sarebbe infatti assai difficile per lui liberarsi da responsabilità e dimostrare che, per fare un esempio, il mancato raggiungimento dell’equilibrio economico non dipende dalla cattiva gestione del budget finanziario, ma da altre cause più disparate, tra le quali la pregressa gestione economica.

In definitiva gli obiettivi aziendali entrano nel contratto professionale come scopo che ma non come oggetto in senso stretto della prestazione: il mancato raggiungimento degli obiettivi da parte del dirigente determina un responsabilità che non è quella risarcitoria prevista per l’inadempimento contrattuale.

Il sistema delineato presenta questi vantaggi: da un lato, non rendere troppo gravosa la responsabilità del dirigente nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi; dall’altro, spronare la dirigenza al raggiungimento degli obiettivi attraverso gli incentivi economici e la prospettiva di incarichi di maggior importanza; infine, consentire, al contempo, al dirigente generale, che la responsabilità globale dell’azienda, di intervenire costantemente sull’organizzazione sanitaria dell’azienda, attraverso l’assegnazione o la revoca degli incarichi dirigenziali, fermo restando il rispetto della garanzie di partecipazione e procedurali già menzionate.

Per quanto concerne i requisiti di formali e sostanziali di validità dell’atto di revoca (ovvero della cessazione dell’incarico dirigenziale prima della scadenza del termine naturale previsto in contratto) si rileva che il provvedimento assume la forma di un atto scritto adeguatamente motivato.

Devono essere osservate le seguenti regole:

  1. la necessità dell’avviso dell’avvio del procedimento;
  2. la necessità della garanzia del contraddittorio;
  3. la necessità di puntuale motivazione in ordine alla inidoneità anche tecnica del nominato a ricoprire quel determinato incarico;
  4. la necessità di preventiva conoscenza, da parte del dirigente valutato, dei criteri di valutazione;
  5. la preventiva accettazione degli obiettivi, quale presupposto indefettibile per l’imputazione della responsabilità dirigenziale.

Abbiamo fino ad ora parlato di tutela senza fare cenno ai problemi di  riparto di giurisdizione.

Le illegittimità riguardanti la materia degli incarichi dirigenziali (salvo che riguardino la posizione del direttore generale, sulla quale si farà cenno in proseguo) possono essere portate, ex art. 63 del T.U. sul pubblico impiego, alla cognizione del giudice ordinario previo tentativo obbligatorio di conciliazione o immediatamente con la tutela ex art. 700 c.p.c. qualora si ritenesse sussistente il periculum in mora.

Secondo una certa impostazione, la giurisdizione del giudice ordinario sarebbe coerente col sistema giuridico solo per le controversie riferite al momento gestionale del rapporto ovvero relative alla esecuzione del contratto di diritto privato che accede al provvedimento di conferimento dell’incarico; provvedimento che si pone come presupposto di validità del contratto stesso. Il provvedimento di incarico (e, quindi, anche al suo contrario, cioè alla revoca) pone, invece, in essere una attività di natura auto-organizzatoria di uffici pubblici che dovrebbe soggiacere a tutte quelle garanzie di imparzialità e buon andamento a presidio delle quali è posto il giudice amministrativo. Peraltro, secondo questa tesi, solo al giudice amministrativo competerebbe l’indagine sulla legittimità degli atti sotto il profilo del vizio di eccesso di potere con conseguente annullamento del provvedimento e la possibilità, anche attraverso la nomina di un commissario ad acta, di ripristinale la situazione quo ante. Mentre il giudice ordinario potrebbe solo condannare al risarcimento del danno stante la impossibilità di annullare il provvedimento e di ordinare una reintegra del dirigente nell’incarico dirigenziale.

Sul punto la Corte Costituzionale è intervenuta a dissipare ogni dubbio: il fatto che negli incarichi dirigenziali si riscontri un elemento concorrente di preposizione ad un ufficio pubblico (Corte Costituzionale n. 275/2001) non comporta che il giudice ordinario non possa intervenire con tutti gli strumenti all’uopo necessari, ivi compreso l’annullamento dell’atto: sul piano dei poteri giurisdizionali g.o. e .g.a. dispongono degli stessi strumenti.

Le Sezioni Unite (n. 7859/2001), poi, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, con riguardo ad una fattispecie riguardante il conferimento di un incarico di struttura complessa (ex secondo livello) hanno spiegato perché la giurisdizione appartiene al giudice ordinario e non al giudice amministrativo.

Ed, invero, ai sensi dell’art. 63 del T.U. quando, come nel caso di incarico di struttura complessa, la scelta del dirigente non si colloca tra gli atti di alta amministrazione  (nel qual caso vi è la giurisdizione del giudice amministrativo, come nel caso nomina del direttore generale sul quale torneremo tra breve) <<il conferimento degli incarichi ai dirigenti si iscrive nell’area gestionale e costituisce esercizio di un potere privato, perché presuppone già compiute dai competenti organi di indirizzo le scelte organizzative di tipo strutturale: la disciplina della privatizzazione dei rapporti di impiego pubblico si impernia sul principio per cui gli atti che si collocano al di sotto della soglia di configurazione strutturale degli uffici pubblici e che riguardano il funzionamento degli apparati sono espressione della capacità di diritto privato>>.

La tesi presuppone la centralità dell’atto aziendale, rispetto al momento provvedimentale dell’atto di conferimento.

L’atto aziendale, che compete al direttore generale, è atto di autoregolamentazione che – nell’ambito delle linee guida fissate dalla regione – materializza scelte strategiche e gestionali capaci di operare a tutto campo, nei confronti del personale e degli utenti del servizio sanitario (così FERRARA).

Nell’atto aziendale è racchiuso il nucleo della autonomia imprenditoriale dell’azienda sanitaria e siccome nella sanità il concetto di impresa coincide con l’equilibrio fra risparmio di spesa e mantenimento di livelli qualitativi di assistenza (NARDONE), vi deve essere la libertà di valorizzare le risorse – anche e soprattutto quelle umane – con una certa libertà di azione.

Questa libertà di azione, nel rispetto delle previsioni dell’atto aziendale che, come abbiamo visto, fissa il numero e la tipologia degli incarichi, o di scelta delle risorse umane, da parte di chi poi assume la responsabilità globale di gestione (ovvero il direttore generale) è garantita a livello ordinamentale dal principio della responsabilità dirigenziale quale responsabilità per mancato raggiungimento degli obiettivi; responsabilità che prescinde dal dolo o dalla colpa del dirigente e che – una volta ravvisata – consente di revocare o di non confermare dall’incarico dirigenziale.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 27/01/2004, n. 1478, come abbiamo visto, hanno illustrato (la fattispecie aveva ad oggetto il conferimento di un incarico di secondo livello – ora di struttura complessa – i criteri per individuare il giudice che ha giurisdizione.

Punto di partenza è il testo dell’art. 63 del tu sul p.i. dlvo n. 165/2001 per il quale sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie concernenti l’assunzione al lavoro e il conferimento degli incarichi dirigenziali, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Spetta invece al giudice amministrativo la giurisdizione concernente le procedure concorsuali.

Quindi deve escludersi la giurisdizione del g.a nelle ipotesi in cui (come nel caso di attribuzione – o revoca – di incarichi di struttura complessa), in esito al colloquio ed alla valutazione, da parte della commissione, dei candidati all’incarico, l’amministrazione non attribuisca punteggi e non formi una graduatoria vincolante, ma unicamente predisponga un elenco di candidati, tutti idonei, perché in possesso dei requisiti di professionalità previsti dalla legge e delle capacità manageriali richieste in relazione alla natura dell’incarico da conferire; elenco che viene sottoposto al direttore generale il quale sceglie (si tratta di scelta di carattere essenzialmente fiduciario ed affidata alla sua responsabilità dirigenziale). Né rileva la circostanza che del conferimento dell’incarico debba essere dato preventivo avviso da pubblicare nella gazzetta ufficiale, avendo l’avviso solo funzione di ampliare il campo dei soggetti tra i quali il direttore deve operare la scelta.

Per le Sezioni Unite, quindi, il punto centrale, ai fini della individuazione della giurisdizione al g.o o al g.a., è verificare se la procedura per il conferimento dell’incarico abbia o meno le caratteristiche o la natura giuridica del concorso, come disciplinato dal d.p.r. n. 487/1994: <<qualsiasi modalità sia prevista per la procedura concorsuale e cioè quella del concorso per esami, quella del concorso per titoli ed esami, quella del concorso per soli tutoli , quella del corso – concorso ovvero quella del concorso con preselezione, un dato comune ed indefettibile a tutte le suddette procedure è che esse si concludono con l’approvazione di una graduatoria di merito, che costituisce un vincolo per l’ente che ha promosso la procedura concorsuale, nel senso che l’assunzione dei candidati deve eseguire, entro il limite dei posti messi a concorso, l’ordine che i candidati hanno assunto nella graduatoria, una volta che la stessa sia stata definitivamente approvata>>.

Occorre ora accennare alla posizione particolare rivestita dal direttore generale.

L’art. 3 bis del dlgvo n. 502/1992 stabilisce che le regioni determinano preventivamente, in via generale, i criteri di valutazione dell’attività dei direttori generali, avendo riguardo al raggiungimento degli obiettivi definiti nel quadro della programmazione regionale, con particolare riferimento alla efficacia e funzionalità dei servizi sanitari.

All’atto della nomina di ciascun direttore generale, esse definiscono e assegnano, aggiornandoli periodicamente, gli obiettivi di salute  e di funzionamento dei servizi, con riferimento alle relative risorse, ferma restando la piena autonomia gestionale dei direttor stessi.

Trascorsi diciotto mesi dalla nomina del direttore generale, la regione verifica i risultati aziendali conseguenti ed il raggiungimento degli obiettivi e procede o meno alla conferma.

Quando ricorrono gravi motivi o la gestione presenti una situazione di grave disavanzo o in caso di violazione di leggi o del principio di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione, la regione risolve il contratto dichiarando la decadenza del direttore generale e provvede alla sua sostituzione.

Il rapporto di lavoro del direttore generale del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato.

Abbiamo già detto che gli obiettivi, che sono indicati dalla delibera della giunta regionale, devono essere accessibili e condivisi: certamente però il direttore generale di fatto aderisce e, in un certo senso, subisce l’imposizione degli obiettivi indicati dalla regione anche quando non hanno tutte le caratteristiche di realizzabilità in un arco di tempo relativamente breve come quello di un incarico che dopo soli 18 mesi rischia di essere revocato.

Tra gli obiettivi che spesso si trovano indicati nelle delibere di conferimento degli incarichi di direttore generale asl, e che per alcune leggi regionali costituiscono cause di risoluzione, vi è il c.d. raggiungimento dell’equilibrio economico.

Ma un rapporto equilibrato tra costi e ricavi difficilmente può essere verificato nei primi 18 mesi di funzioni perché necessita di un più lungo termine; inoltre si tratta di obiettivo che non può prescindere dalla valutazione della situazione di partenza: dipende in sostanza dalla situazione del bilancio all’atto della nomina.

Dunque, assume rilievo determinante l’esaustività della motivazione che deve giustificare, alla luce dell’istruttoria ed in applicazione dei criteri di valutazione prestabiliti, sempre che siano oggettivamente riscontrabili, i presupposti dei provvedimenti di revoca o di decadenza del direttore generale.

Indispensabile è la partecipazione al procedimento del direttore generale che segue l’avviso dell’avvio del procedimento, condizione di legittimità del provvedimento successivo.

Secondo la giurisprudenza amministrativa <<la Regione conserva il potere di procedere alla verifica di gestione anche se non abbia prestabilito, in termini generali, i parametri alla cui stregua condurla. Tuttavia, la mancata predisposizione di questi parametri si riflette sul piano della motivazione, che , in assenza di un preciso antecedente concettuale, dovrà essere ancor più esauriente nella parte in cui procede alla valutazione dei risultati amministrativi e di gestione conseguiti: specie quando l’esito della verifica è negativo e si traduce nella risoluzione del rapporto con il direttore generale>> (Cons. Stato n. 3951/99).

Nel caso di illegittima revoca o risoluzione anticipata del rapporto il direttore generale ha diritto al risarcimento del danno (nella doppia componente del danno emergente e del lucro cessante e quindi non solo la retribuzione non più corrisposta ma anche il danno all’immagine professionale e la perdita di chance) sia come lesione dell’interesse legittimo che come lesione dei diritti patrimoniali e di immagine scaturenti dalla risoluzione del contratto autonomo di lavoro ex art. 2222 c.c.

Sul punto del danno all’immagine professionale al direttore generale asl la Corte di Cassazione ha affermato che esso è in re ipsa. Non è quindi necessaria la diretta e concreta dimostrazione nel giudizio del danno perché la revoca o la risoluzione determinano una sicura modificazione peggiorativa della valutazione sociale del soggetto da parte della comunità.

La nomina del direttore generale è considerato atto di alta amministrazione e questo ha risvolti in ordine alla giurisdizione; egli è nominato senza necessità di valutazioni comparative (ma sempre che sia in possesso di determinati requisiti tra i quali la laurea e lo svolgimento quinquennale di funzioni dirigenziali) sicchè il rapporto tra regione e direttore generale è  contraddistinto da un accentuato carattere fiduciario.

Sul punto le Sezioni Unite (sent. n. 14177/2004) si sono espresse in questi termini: ai sensi dell’art. 3, comma 6, d.lgs 30/12/1992 n. 502, il rapporto di lavoro intercorrente fra azienda sanitaria locale e direttore generale è regolato da un contratto di diritto privato. Detto negozio è risolvibile da parte della azienda sanitaria per gravi motivi o quando la gestione aziendale presenti una situazione di grave disavanzo o in caso di violazione di leggi o di principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione.

Ma questa ipotesi non va confusa con quella prevista dall’art. 1, comma 6, secondo cui dopo un anno dalla nomina di ciascun direttore generale, le regioni provvedono alla verifica dei risultati amministrativi e di gestione ottenuti, secondo i criteri e i principi indicati dalla legge e dispongono, con provvedimento motivato, la conferma  dell’incarico o la risoluzione del relativo rapporto.

Ed, invero, solo nel caso di risoluzione del contratto di lavoro per gravi motivi o per violazione di legge o dei principi di buon andamento o di imparzialità la cessazione del rapporto è ascrivibile alla risoluzione per inadempimento prevista dal codice civile e coinvolge situazioni di diritto soggettivo tutelabili davanti al giudice ordinario (Cass. 6 maggio 2003, n. 6854). In questo caso la risoluzione ha  natura paritetica e non autoritativa, perché deriva da un inadempimento contrattuale (inesatta esecuzione del contratto di lavoro autonomo), con la conseguente giurisdizione del giudice ordinario.

Viceversa, le controversie aventi ad oggetto la delibera regionale di conferma o mancata conferma dell’incarico, atteso che tipo di provvedimenti presuppongono una valutazione discrezionale sull’idoneità del direttore generale a svolgere l’incarico affidatogli, indipendentemente, cioè, dall’avere egli contravvenuto ai propri doveri contrattuali, poiché involgono interessi legittimi, sono tutelabili dinnanzi al giudice amministrativo.

In conclusione la giurisprudenza è ferma nel ritenere che la mancata conferma o la revoca da parte della Regione dell’incarico di direzione generale di un’azienda sanitaria locale a seguito della verifica dei risultati amministrativi e di gestione prevista dall’art. 1, comma 6, del D.L. 27/8/94, n. 512, convertito nella legge 17/10/1994, n. 590, come già l’originario atto di autonomia, consegue ad un procedimento caratterizzato da valutazioni discrezionali della amministrazione nei cui confronti l’interessato non vanta posizioni di diritto soggettivo ma solo di interesse legittimo tutelabili davanti al giudice amministrativo (cfr. testualmente sentenza n. 5746/03).

L’ordinamento prevede uno stretto intreccio tra governo della regione e vertici della dirigenza sanitaria, ma al contempo indica lo strumento per scongiurare il pericolo di un appiattimento del direttore generale ai voleri di chi lo ha nominato, facendo obbligo alle regioni di determinare preventivamente in via generale i criteri di valutazione dell’attività dei direttori generali.

La possibilità di revocare l’incarico del direttore generale, indipendentemente dalla colpa o dal dolo, ma sulla base della mera responsabilità di gestione,  è prerogativa del potere autoritativo della regione; potere al quale fanno da contrappeso le garanzie di adeguata motivazione, rispetto dei parametri predeterminati, ed il contraddittorio.

La discrezionalità, molto ampia nel momento della scelta e della nomina del dirigente generale, sul fronte della revoca o alla mancata conferma dell’incarico è subordinata al rispetto di criteri predeterminati, onde evitare la deriva dell’allontanamento dal principio meritocratico e della invasione della politica sulla attività amministrativa.

L’ordinamento giuridico, infatti, rifugge ogni sistema nel quale la dirigenza possa essere rimossa prescindendo da valutazioni e procedimenti che garantiscano la verifica obiettiva del loro operato: la Corte Costituzionale ha, infatti, dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme nazionali  e regionali che legittimavano lo spoils system per i dirigenti pubblici.

Per maggiore precisione la sentenza n. 103/2007 ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge n. 145/2002 (legge Frattini) nella parte in cui dispone che gli incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge stessa e la sentenza n. 104/2007 ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune leggi regionali che avevano esteso i principi dello spoils system “Frattini” ai direttori generali delle ASL della Regione Lazio e ai dirigenti della Regione Sicilia.

 Le indicazioni della Corte Costituzionale sono nel senso che la revoca delle funzioni legittimamente conferite può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale ovvero in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (così sent. n. 193 del 2002).

Nella sua dottissima relazione il prof. Paolontaonio, nel commentare la sentenza n. 103/2007 della Corte Costituzionale, che ha bandito dal nostro sistema costituzionale la possibilità di applicare il c.d. spoils system, ha fatto osservazioni interessantissime tra le quali quella sulla costituzionalizzazione del principio del giusto procedimento. Egli ci ha anche fatto riflettere sul fatto che il testo dell’art. 63 del T.U. non riflette l’attuale assetto del riparto di giurisdizione, così come è stato interpretato dalla giurisprudenza, e che, per il fatto che i provvedimenti di nomina revoca degli incarichi dirigenziali involgono interessi pubblici, l’alveo naturale delle relative controversie è da considerarsi la giustizia amministrativa.

Tuttavia preme evidenziare che quando i tribunali amministrativi limitano il loro sindacato, affermando che la verifica dei risultati conseguiti dal direttore generale dell’asl , come delineata dall’art. 3 bis, comma 6, del decreto legislativo n. 502 del 1992, comporta valutazioni discrezionali censurabili, in sede di giurisdizione di legittimità, esclusivamente per i profili dell’eccesso di potere per illogicità manifesta, eclatante erroneità o clamoroso difetto di motivazione, fanno un grave torto ai diritti di difesa dei dirigenti perché sappiano bene che di frequente le motivazioni dissimulano l’intento di estromettere chi non è più gradito al governo della regione per questioni di assonanze politiche venute meno, al di là, cioè, degli obiettivi meriti o demeriti del professionista.

Lo svecchiamento dell’ordinamento processuale amministrativo (art. 16 della legge 205/2000) e la facoltà di nominare un consulente tecnico di ufficio per consentire un sindacato pieno nei casi che implicano la verifica della applicazione, da parte della giunta regionale, dei criteri preventivi di monitoraggio dei risultati raggiunti dal direttore generale rappresenta una possibilità spesso dimenticata dalla parte meno efficiente della magistratura amministrativa a tutto svantaggio della giustizia, se questa è intesa come strumento di accertamento della verità.

 

Riferimenti Bibliografici:

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