“I beni culturali nell’era del metaverso” dell’Avv. GIUSEPPINA SCHETTINO

Relazione tenuta in occasione del Convegno “NUOVI E VECCHI STRUMENTI PER LA TUTELA, VALORIZZAZIONE E FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI.” svoltosi a Roma presso la Corte di Cassazione il 7 Novembre Convegno 7 Novembre 2022 Roma 12022 organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e dall’Associazione Romana di Studi Giuridici 

 

 

I beni culturali nell’era del metaverso

(Avv. Giuseppina Schettino)

Ringrazio il Presidente dell’Ordine Antonino Galletti, il Presidente dell’ARGS, Maurizio De Paolis, ed il Presidente Salvatore Sfrecola e saluto tutti i presenti. Ben ritrovati.

L’argomento della presente relazione ha ad oggetto il rapporto tra le nuove tecnologie informatiche ed il patrimonio culturale, per come è inteso dal nostro ordinamento e per le applicazioni e gli effetti che ne possono scaturire.

Il riferimento al metaverso deriva dal fatto che il metaverso  – o meglio i metaversi, perché, come vedremo, ci sono tanti metaversi, quante sono le piattaforme informatiche che ne rendono possibile l’accesso – sebbene non possa essere definito in maniera univoca, rappresenta, questo sì, lo possiamo dire, da profani, l’evoluzione sferica di internet e può inglobare varie tecnologiche digitali quali sicuramente la realtà virtuale, da non confondere con la realtà aumentata, la tecnologia aptica, l’intelligenza artificiale, soprattutto la blokchain (e le sue applicazioni), che ne costituisce l’infrastruttura.

Queste tecnologie sono considerate dagli ordinamenti giuridici moderni non solo efficaci strumenti di gestione, conservazione e tutela del patrimonio culturale, ma, soprattutto, veicolo di nuovi, più evoluti e stimolanti modelli di valorizzazione e fruizione dei beni culturali; come vedremo, poi, le tecnologie digitali sono esse stesse mezzo per la creazione d’arte, mi riferisco chiaramente alla c.d. crypto arte o arte digitale.

La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, ratificata il 23 settembre 2020 espressamente invita i paesi firmatari a sviluppare l’uso delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso all’eredità culturale, abbattendo gli ostacoli che ne limitano la fruizione.

Il PNRR 2021, poi, (sulla scia del Piano Triennale per la Digitalizzazione e l’Innovazione dei Musei dell’agosto 2019) dà oggi un impulso molto forte all’applicazione delle tecnologie emergenti quali strumenti di attuazione dell’art. 9 della Costituzione e delle indicazioni provenienti dall’UNESCO e dal menzionato diritto eurocomunitario.

All’interno della Missione 1 dedicata al Turismo e Cultura 4.0 – due settori molto colpiti dalla pandemia – il PNRR ha predisposto la cifra di 500 mln di euro da erogare, sulla base di bandi ad hoc, alle imprese innovative per progetti in grado non solo di incrementare, organizzare, integrare e conservare il patrimonio digitale di archivi, biblioteche, musei e luoghi di cultura, ma soprattutto di offrire a cittadini e operatori nuove modalità di fruizione, oltre che sviluppare un’infrastruttura cloud e software per la gestione delle risorse digitali.

Ora, pensiamo che già solo il fatto di digitalizzare le opere d’arte, semplicemente trasponendo la loro immagine su di un supporto informatico per renderle fruibili via internet, in estese gallerie digitali, senza necessariamente doverle esporre fisicamente, comporta la possibilità di far emergere il 90% del patrimonio artistico che giace imballato negli scantinati dei musei e che da 100 anni nessuno ha mai visto e di renderlo finalmente fruibile per il mondo intero.

Non solo è possibile catalogare e certificare al meglio i beni culturali, attraverso le applicazioni della blockchain – (infrastruttura informatico-giuridica di cui parleremo più avanti) – ma, tramite le predette tecnologie, può essere anche certificato lo stato di conservazione materiale del bene culturale.

Pensiamo, per fare un esempio concreto, al Progetto italiano Aerarium Chain capace di monitorare il grado di conservazione di un’opera d’arte attraverso sistemi di intelligenza artificiale che ne identificano ogni aspetto determinante (ad esempio, dimensioni, peso, colore, stato termo idrometrico e così via): in sostanza, si fa una scansione tridimensionale dell’opera e quest’ultima, con tutti i dati allegati, viene registrata su blockchain che, per le sue caratteristiche, come vedremo, rende la documentazione inalterabile nel tempo, permettendo di certificare ogni possibile cambiamento.

Ma è sul piano della valorizzazione e fruizione che gioca un ruolo decisivo la tecnologia digitale.

Il PNRR ha ben chiaro che lo stretto intreccio esistente tra tecnologia e patrimonio culturale, si traduce, da un lato, nel dare origine ad un nuovo modo di fare museo, dove l’opera d’arte è solo un punto di partenza per sprigionare nuove energie creative e potenzialità immense; dall’altro, nella massima accessibilità e fruibilità dell’opera, con il superamento di barriere geografiche e fisiche, attraverso la progettazione di sistemi di valorizzazione e di fruizione multisensoriali ed inclusivi del patrimonio culturale, in modo da raggiungere l’uguaglianza e la pari dignità di ogni essere umano in ogni parte del mondo.

Cerchiamo di vedere, allora, un poco più da vicino questi strumenti che stanno rivoluzionando il concetto stesso di museo e di valorizzazione e fruizione dei beni culturali.

Anche se ci vorrebbero dei tecnici a spiegarcelo, proviamo a innanzitutto distinguere tra realtà aumentata e realtà virtuale.

La realtà aumentata è la realtà fisica, la realtà normale che ci circonda, ma con un contenuto olografico che si sovrappone ad essa: la proiezione degli ologrammi può avvenire sui muri, sulle superfici degli oggetti ed è un potente mezzo di simulazione e nei musei viene utilizzato per dare delle suggestioni che valorizzano l’esposizione dell’opera artistica.

Pensiamo alla cosa più semplice: alle scenografie con immagini storiche proiettate sui muri di un Museo che fanno da cornice alla esposizione di oggetti di una data epoca.

A cavallo tra la realtà aumentata e quella virtuale, ci sono tecnologie miste di cui abbiamo fatto esperienza anche a Roma, come la Domus Aurea 3D o la Virtual History di Roma.

A volte il Museo, grazie alle nuove tecnologie, gioca con il visitatore e così lo attira: facciamo l’esempio dello spazio Meta al Palazzo Reale di Palermo. Qui il Museo ha offerto ai visitatori la possibilità di essere scansionati da un sistema di tecnologia avanzata che istantaneamente realizza la propria versione avatar. Il file contenente la scansione, consegnato al visitatore, gli permette di conservare nel futuro la memoria del proprio volto e di poter realizzare il proprio busto, proprio come le opere esposte del satiro Danzante e della Testa di Ottaviano Augusto.

Stavamo dicendo che la realtà aumentata è diversa dalla realtà virtuale o metaverso.

Come abbiamo già anticipato, non c’è una definizione unica di metaverso, perché ci sono tanti metaversi, per quante sono le piattaforme virtuali che ci consentono di fruirne, per cui è più esatto parlare di permanenza di tanti mondi in 3D, dove noi accediamo con le nostre identità digitali lasciando una impronta immutabile delle transazioni effettuate, atteso che la tecnologia blockchain che ne costituisce ormai l’impianto.

Il termine metaverso, come è noto, viene ricondotto ad un romanzo risalente agli anni 90, intitolato “Snow Crash”, dove l’autore preconizza una realtà virtuale 3D, collegata al mondo fisico, in cui le persone si muovono attraverso i propri avatar.

Sicuramente possiamo dire, dal punto di vista tecnico, che il metaverso è una evoluzione di internet e segna il passaggio da un internet bidimensionale ad un internet tridimensionale, sferico, immersivo, che realizza questo risultato perché compendia in sé svariate tecnologiche, sempre in continua evoluzione.

Queste tecniche ci permettono di entrare in internet come in un ambiente sferico,  di esserne circondati, tanto da fornirci una esperienza molto simile alla realtà, a volte anche più intensa, considerato che lo sviluppo di internet prevede l’utilizzo di dispositivi quali occhiali, guanti aptici, caschi, esoscheletri e quant’altro, che possono restituirci sensazioni anche fisiche molto forti, in un mondo dove le nostre vite fisiche e virtuali si intrecciano.

Marc Zuckerberg che, come è noto, ha cambiato il nome di Facebook in Meta, ha investito 2 miliardi di dollari in una azienda chiamata Oculus, dedicata alla realtà virtuale.

Quello che oggi si vuole superare, infatti, è l’ostacolo dello schermo al quale tutti noi siamo abituati quando navighiamo su internet entrando in un link e poi in un altro, ma sempre con l’interposizione di uno schermo e con una visione piatta della realtà virtuale.

Ora, la barriera dello schermo viene superata solo eliminandolo; cosa possibile nel momento in cui internet viene incorporato in processori miniaturizzati e inseriti all’interno di accessori personali, soprattutto occhiali, capaci di teletrasportarci in uno spazio cybernetico a cavallo tra il fisico ed il virtuale.

E permetterci di vivere così una vita dalle enormi potenzialità di incontri e di esperienze, dove barriere geografiche e fisiche possono essere abbattute e dove, per tornare al nostro tema, i beni culturali possono essere fruiti e valorizzati al massimo grado.

Indossando i visori di realtà virtuale, come gli attuali Meta Quest e Project Cambria, gli utenti possono ritrovarsi in ambenti interamente ricostruiti virtualmente coi propri amici sotto forma di avatar, oppure possono fare esperienza di una realtà mista in cui elementi digitali si sovrappongono al mondo fisico. Per esempio, io posso recarmi fisicamente ad un evento ed invitare un amico che mi raggiunge sotto forma di ologramma mentre si gode l’esperienza tranquillamente da casa sua.

Non parliamo di un qualcosa di lontano, ma di una realtà ormai acquisita: a luglio di quest’anno, a Torino, c’è stata la prima discussione di laurea in metaverso: la tesi, discussa dall’avatar del laureando, si intitolava: Tra presente e futuro: l’impatto del Metaverso sulla società.

Il Governo della Repubblica delle Barbados, non potendo garantire una presenza diplomatica in tutte le parti del mondo, ha deciso di creare la prima ambasciata sul metaverso. Questo per fare alcuni esempi.

Il metaverso, dicevamo, è un mondo variegato, da costruire e colonizzare, ed in parte già colonizzato dalle multinazionali che lo utilizzeranno, purtroppo, per vendere a noi e ai nostri avatar beni e servizi di tutti i tipi, attraversi i c.d. tokens contracts.

I nostri avatar possono acquistare, vendere, partecipare ad eventi e, se non si comportano bene, possono pure commettere reati – (c’è già una denuncia per molestie subite dall’avatar di una ricercatrice americana che si è sentita aggredita su una piattaforma di giochi) – con la necessità, per gli ordinamenti, di riconsiderare norme civili e penali, con riferimento ad un mondo privo di fisicità e dei confini territoriali come fino ad adesso non li abbiamo mai considerati.

Sono in atto, come è noto, le compravendite immobiliari sulle piattaforme più importanti, come  The Sandbox e Decentraland, di lotti di terra su cui costruire la parallela società cybernetica.

Abbiamo già fatto l’esempio dell’Ambasciata delle Barbados, ma pensiamo anche che la più importante casa d’aste inglese, la Sothey’s, e la celebre galleria fisica berlinese Konig Galerie hanno acquistato e gestiscono gallerie in metaverso sulla piattaforma Decentreland.

La prima si trova nel Voltair Art Disrict di Decentraland, utilizzando le coordinate della mappa 52,83; l’edificio ha cinque spazi al piano terra per mostrare le opere, oltre ad un avatar digitale del suo commissario londinese Hans Lomulder che accoglie i visitatori alla porta. Afferma testualmente un rappresentante di Sotheby’s: ..spazi come Decentraland sono la prossima frontiera per l’arte digitale in cui artisti, collezionisti e spettatori possono interagire tra loro da qualsiasi parte del mondo e mostrare arte che è fondamentalmente rara e unica, ma accessibile a chiunque per la visualizzazione..

Abbiamo detto che l’infrastruttura informatico-giuridica del metaverso è la blockchain.

Questa tecnologia fu inventata nel 2008, quale supporto per la creazione delle prime cryptovalute, i bitcoin.

In metaverso si può negoziare grazie alle sue applicazioni: i c.d. tokens contracts.

Dunque, tento di dire, in modo chiaramente non tecnico, quali sono le caratteristiche principali della tecnologia blockchain che sono importanti dal nostro punto di vista.

La tecnologia blockchain è un sistema informatico di registrazione e di certificazione di beni, diritti e utilità, che ha una struttura architettonica particolare: è decentrata e distribuita; letteralmente è una catena di blocchi, contenenti informazioni, dove ogni singolo utente, con il suo computer collegato alla rete, rappresenta un nodo ed è controllore e garante della catena stessa.

Qualsiasi informazione o dato venga protocollato su un registro o nodo della catena viene registrato e validato anche in tutti i registri o nodi della catena, in modo trasparente, accessibile 24 ore su 24 ed inalterabile.

Poiché ogni inserimento dei dati passa a tutti i nodi della catena attraverso una marcatura temporale che genera specifici ed inalterabili algoritmi, ogni modifica del registro è tracciabile nel tempo ed è immodificabile e nessun blocco della catena può essere alterato senza che questa manomissione possa sfuggire al raffronto con gli altri blocchi.

Il sistema fornisce, pertanto, la massima garanzia di sicurezza, affidabilità e certezza dei diritti e dei certificati una volta validamente registrati nella catena.

La blockchain, in quanto registro distribuito, condiviso e pienamente accessibile in ogni momento della giornata, mette tutti gli utenti in una posizione di parità e di reciproca fiducia. E proprio questa caratteristica è vista come rivoluzionaria, perché sovverte il sistema tradizionalmente accentrato di registrazione dei dati che prevede la presenza di un’autorità sovraordinata che detiene un registro unico centralizzato, al quale si conferiscono i dati per la loro validazione, conservazione e gestione.

La tecnologia blockchain, che può avere infinite applicazioni, per le sue caratteristiche intrinseche, elimina, sul piano delle negoziazioni tra privati, la necessità della intermediazione di una autorità pubblica validante e/o di un soggetto terzo che rappresenti la pubblica fede, mentre, sul fronte pubblicistico, apre la strada ad un controllo democratico e sicuro dei procedimenti amministrativi e della gestione delle risorse finanziarie ad essi finalizzati.

Sulla blockchain si opera attraverso i c.d. tokens contracts, che altro non sono che informazioni digitali protocollate sulla blockchain stessa o ad essa collegati ed associati in modo univoco ad utenti specifici: con i token contract si costituiscono e si cedono i diritti e si operano le transazioni.

I token possono avere oggetto e funzioni diversi e, altresì, sfuggono ad una definizione unitaria. Ci sono i c.d. tokens di pagamento, ovvero le cryptovalute, che, in quanto fungibili, sono mezzi di pagamento; i c.d. utility tokens, con i quali si può accedere ad un servizio digitale presente sulla blokchain; i c.d. security tokens, che possono rappresentare diritti di credito legati a posizioni assicurative, obbligazionarie, azionarie e via di seguito; i c.d. asset tokens, che certificano, in maniera univoca, la proprietà o altri diritti su beni materiai o immateriali con riferimento a beni infungibili.

E poiché nello stesso token possono coesistere anche oggetti o funzioni differenti, la disciplina giuridica eventualmente applicabile, laddove lo smart contract non riuscisse a portare a termine in via automatica il programma negoziale predefinito, dipende dalle informazioni e/o condizioni inserite nello stesso dalla piattaforma informatica di riferimento.

Sulla natura giuridica dei c.d. tokens ancora non vi è chiarezza: per alcuni si tratta di certificati digitali, per altri sono veri e propri beni, tant’è che sono già stati oggetto di pignoramento, per altri si avvicinano ai titoli rappresentativi di merci.

Quello che è importante dire è che, anche se non c’è una regolamentazione specifica, l’ordinamento italiano, all’art. 8 ter del Decreto semplificazioni, ha già riconosciuto e codificato il sistema blockchaine e sancito che gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta.

In altri termini, resi noti i requisiti tecnici per l’identificazione informatica soggettiva, a norma del citato art. 8 ter, possono validamente trasferirsi, tramite NFT contract, anche beni che richiedono la forma scritta per la loro cessione, con gli effetti certificativi potenziati dalla tecnologia blockchain e senza intermediazioni.

Peraltro gli smart contract vengono considerati documenti informatici e come tali, a norma del Codice dell’amministrazione digitale, sono ammessi come prova giudiziale.

Ritorniamo ora al nostro tema.

Nel mondo dei beni culturali, il fenomeno degli NFT (Non Fungibol Tokens) è letteralmente esploso dando vita alla c.d. arte digitale e a nuove forme di speculazione.

Gli NFT sono i token non fungibili, ovvero quelli che hanno la caratteristica della unicità, indivisibilità ed infungibilità, in quanto rappresentano beni reali o digitali, non fungibili, come un’opera d’arte analogica o digitale oppure diritti relativi a questi beni (ad esempio licenze di sfruttamento economico sull’opera o comunque di utilizzazione e quant’altro).

Ora, dovremmo farci una prima domanda: perché tokenizzare un’opera d’arte che già esiste nella realtà o, più precisamente, perché inserire la copia digitale di un’opera che già esiste nella realtà fisica ed il suo certificato di proprietà e/o di autenticità in un NFT (token non fungibile)?

Lo si fa perchè la tokenizzazione conferisce all’opera lo stigma della unicità e della esclusività in un ambente, come quello informatico, dove tutto è infinitamente replicabile.

In altre parole, nel mondo digitale un’opera può essere riprodotta visivamente innumerevoli volte e questa riproducibilità inevitabilmente la svaluta, rendendola non appetibile sul piano economico, essendo alla portata di tutti.

Tokenizzando un’opera d’arte, invece, la si rende unica, insostituibile, infungibile: le si appone una sorta di firma d’autore, di certificazione, che la distingue da tutte la altre copie che possono trovarsi su internet.

Ed è proprio questo a spingere psicologicamente il collezionista o l’appassionato a volerla acquistare anche a prezzi da capo giro e a dire .. è solo una copia certificata ma è unica ed è solo mia, io solo posso permettermela: questo sentimento accende nel mercato il meccanismo della speculazione: più il bene agognato è scarso più il suo valore aumenta.

Il British Museum per primo ha avuto l’idea di digitalizzare le opere d’arte, tra cui, come è noto, la xilografia del 1831 dell’artista giapponese Hokusai.

L’anno scorso la copia tokenizzata dell’Onda, appunto di Hokusai, è stata battuta all’asta da Christie’s a 1,6 milioni di dollari.

 

Ricordiamo anche il caso italiano molto famoso di tokenizzazione, quello relativo alla Sacra Famiglia Michelangelo, opera conosciuta anche come Tondo Doni ed esposta nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

 

Tra i motivi per i quali un Museo può decidere di tokenizzare un’opera c’è quello di realizzare una forma di finanziamento: questo ha fatto anche la Galleria degli Uffizi, stipulando un accordo con la società Cinello di Milano.

 

L’accordo era basato su di un provvedimento di concessione, previsto dall’art. 108 del Codice dei beni Culturali, avente ad oggetto però uno sfruttamento economico atipico della immagine dell’opera, con la tokenizzazione del certificato di autenticità emesso dallo stesso Museo e la tracciabilità di ogni operazione sulla blokchain della piattaforma Ethereum.

In base all’accordo, a fronte della concessione del diritto di vendere le copie digitali dell’opera, la società Cinello assicurava al Museo il 50% del ricavato.

La copia digitale del Tondo Doni, a schermo luminoso, contenuta in una bellissima cornice artigianale dorata, è stata quindi venduta ad un collezionista romano a 240 mila euro che, sottratti i costi di riproduzione, pari a 100 mila euro, hanno reso alla Galleria degli Uffizi solo 70 mila euro.

A questo punto, però, il Ministero della cultura ha reagito, perché, prima di tutto, la concessione non è passata attraverso le maglie dell’evidenza pubblica e, in secondo luogo, perché non è stato rispettato in toto l’art. 108 del Codice dei beni culturali che prevede per lo sfruttamento delle immagini delle opere museali, il pagamento di un canone.

Il Ministero ha, quindi, diramato una circolare chiedendo ai Musei di non fare accordi né rinnovare i contratti stipulati con la società Cinello o con qualunque altra società per la digitalizzazione e/o tokenizzazione di opere appartenenti al patrimonio culturale di appartenenza pubblica, comunicando altresì la costituzione di una commissione di esperti per la elaborazione dei linee guida sulla materia.

La materia, dunque, è in attesa di essere regolamentata.

Avevamo accennato al fatto che la speculazione esistente attorno agli NFT in genere fa leva su un meccanismo psicologico, la c.d. FOMO: fear of missing out: paura di rimanere fuori; fuori da qualcosa di unico ed esclusivo, ovviamente in relazione ad una determinata comunità di riferimento.

Infatti, la community di riferimento è un elemento essenziale del processo speculativo legato al mondo degli NFT e della cryptoarte in particolare; prima della c.d. REVEAL, rivelazione dell’opera, quest’ultima viene esaltata presso la comunità di riferimento, attraverso un tam tam mediatico o quant’altro (come ad esempio un particolare progetto al quale l’opera è collegata) riesca a veicolare l’interesse e l’attenzione della comunità di persone interessate.

Tutto questo consente agli artisti digitali di farsi conoscere e di potere avere poi un riscontro immediato delle loro creazioni.

Ci riferiamo adesso all’arte crittografica in senso stretto, ovvero alle opere d’arte create ab origine in ambiente virtuale tramite NFT e quindi non esistenti nel mondo fisico.

Di questa tipologia, l’opera più costosa è di un artista digitale di nome Pak, di cui non si conosce la vera identità, e si intitola The Merge (la fusione); quest’opera, dalle particolari caratteristiche tecniche, perché consta della fusione di migliaia  NFT destinati a fondersi insieme e venduti in una sola asta, è stata aggiudicata a 91,8 milioni sulla piattaforma Nifty Gatteway nel 2021.

 

La creazione degli NFT permette agli artisti digitali di operare anche in completa autonomia e senza la necessità della mediazione di intermediari o di galleristi.

In altre parole, gli artisti digitali creano NFT direttamente al computer e poi li mettono in vendita, a prezzo fisso o all’asta, nelle piattaforme informatiche prescelte.

Gli NFT, inoltre, anche dopo essere stati venduti, possono continuare ad essere remunerativi per l’artista in quanto le condizioni di cessione incise negli smart contract contemplano il diritto a ROYALITES: compensi percentuali all’autore dell’opera ad ogni successiva transazione.

Questo vantaggio non è tipico, invece, del mondo dell’arte analogica: infatti, quando un artista vende un’opera fisica, ad esempio un quadro, si priva del bene, pur rimanendo titolare del diritto d’autore, sicché se dopo 10 anni il quadro aumenta notevolmente di valore, nulla gli viene riconosciuto, in caso di rivendita.

Ulteriore vantaggio, offerto dalla tecnologia informatica blockchain, è la tracciabilità dell’opera d’arte. Ricordiamo che nel nostro ordinamento le opere d’arte non rappresentano beni mobili registrati e, quindi, sfuggono ad ogni controllo; la tecnologia blockchain ha, quindi, il merito di assicurare la tracciabilità dell’opera facendo le veci di un vero e proprio registro, inalterabile ed immodificabile.

Proprio perché la tecnologia blockchain potrebbe, in futuro, per le sue peculiarità, esautorare qualsiasi ente o soggetto intermediario, la SIAE, che, ad oggi, centralizza la gestione dei diritti d’autore, ha avuto la lungimiranza di non aspettare che gli artisti, di qui a breve, tokenizzassero da soli le loro opere.

La SIAE ha, cioè, tokenizzato per prima le musiche e le canzoni degli autori scegliendo la blockchein presente nella virtuosa piattaforma creata da un italiano, la ALGORAND.

Quindi sono stati creati su blockchain, se non ricordo male, quasi 4 milioni di NFT, per l’equivalente di 95.000 artisti. Questi NFT hanno la particolarità della doppia firma certificativa sia dell’autore che della SIAE, in modo che l’autore, un domani, possa gestire il token in maniera autonoma.

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L’argomento è vastissimo e anche molto appassionante e qui pochi argomenti sono stati appena sorvolati.

Le nuove tecnologie informatiche non sono solo strumenti di creazione di nuovi generi artistici, pensiamo all’arte digitale – (e già ci sono Musei in Italia che espongono gli NFT, per la bellezza intrinseca della loro visione, evidenziando che non si tratta solo di un fenomeno speculativo) e all’arte tridimensionale, come il Cinema 3D, al quale non abbiamo nemmeno accennato – ma oggi è diventata essenziale, per quanto visto, per la gestione, la conservazione, la massima fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale.

Le tecnologie blockchain rappresentano, poi, il paradigma di un nuovo modo di concepire ed impostare le regole fondamentali della nostra civiltà giuridica.

Concludo, ricordando l’enorme contributo di queste tecnologie ai Carabinieri ed alla Polizia nelle attività internazionali di contrasto alla diffusione illecita delle opere del patrimonio culturale e alla violazione del copyright.

Grazie.