Il mobbing nel pubblico impiego tra patologie sanitarie e aspetti di rilevanza giuridica

dell’ Avv. Sveva ROSSI

Sommario: 1) Il mobbing è reato?; 2) La nozione di mobbing; 3) La responsabilità del datore di lavoro; 4) Le conseguenze psicofische e i danni risarcibili; 5) Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità;

1) Il mobbing è reato?

La recente sentenza della Cassazione n. 33624/07, ha destato, peraltro per poco tempo, l’attenzione su fenomeno del mobbing che, dopo lo scalpore dei primi casi giudiziari, è invero rimasto in sordina, in assenza di provvedimenti legislativi risolutivi e mirati.

La notizia riportata dai quotidiani era che per la Cassazione penale il mobbing non è reato. Tuttavia questo “titolo” per quanto conforme al vero è fuorviante[1].

Se, infatti, è assolutamente vero che il nostro ordinamento non contempla il reato di mobbing, tuttavia, la decisione della Suprema Corte non intende in alcun modo affermare che la fattispecie in argomento non possa, in alcun caso, risolversi in un fatto costituente reato. Per converso la decisione ribadisce che l’elemento costituente il mobbing deve essere riscontrato nella ripetizione e continuazione di una pluralità di condotte persecutorie che nel caso di specie non sarebbero state contestate nel capo di imputazione.

La sentenza si richiama a precedenti penali in cui la condotta mobbizzante è stata ritenuta penalmente rilevante in riferimento al reato di maltrattamenti verso persona affidata per ragioni di custodia e insegnamento.

Con la sentenza n. 10090/2001, infatti, il giudice di legittimità perveniva, al riconoscimento della responsabilità penale del “mobber” applicando l’art. 572 c.p. (“maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”).

Secondo la Corte di Cassazione, invero la fattispecie dell’art. 572 c.p., pur essendo apparentemente relativa solo all’ambito familiare, potrebbe avere una portata puntiva che comprende anche casi che si verifichino in un contesto diverso da quello strettamente familiare (o parafamiliare), essendo diretta a tutelare ogni persona in qualche modo sottoposta all’autorità di qualcuno, in quanto la norma fa riferimento alle ipotesi di “affidamento (ad altri) per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte”: “si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare”.

La Cassazione ha qualificato il mobbing penalmente rilevante, in ragione delle “ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali” inferte dagli imputati al personale loro sottoposto, sì da averlo ridotto. “in uno stato di penosa sottomissione ed umiliazione”, collegate da un rapporto telelologico (che nel caso era di massimizzare i profitti per il datore di lavoro).

Tuttavia, si deve precisare che, nel quadro del condotte mobbizzanti, si possano rinvenire anche singole fattispecie criminose come la violenza privata, la violenza sessuale, le minacce, le lesioni personali che sono autonomanente punibili, come, ad esempio, il caso della sentenza del Tribunale di Taranto il 7 marzo 2002 (causa palazzina LAF) in cui il datore di lavoro – impreditore è stato condannato dal giudice penale per il reato di violenza privata.

Nel concludere questa breve premessa con cui si è voluto trarre conferma dal confronto con le pronunce penali, della definzione di mobbing elaborata dalla giurisprudenza, si denota che la sussunzione delle pratiche “mobbizzanti”, nell’ambito del disposto di cui all’art. 572 c.p. non consente, per definizione, di punire coloro che, trovandosi in posizioni omologhe a quelle del soggetto perseguitato, pongano in essere il così detto mobbing orizzontale perchè mancherebbe in questi casi il presupposto della subalternità del mobbizzato e quindi la relazione di affidamento.

Invero, la carenza della norma incriminatrice rende difficile configurare la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 40 c.p.c per l’omissione nei controlli verso i propri dipendenti che abbiano commesso azioni penalmente rilevanti per mobbing nei confronti dei colleghi[2].

Tuttavia, anche in questo caso è possibile prospettare la sussistenza di responsabilità a carico del datore di lavoro, quale conseguenza della violazione dell’obbligo di tutela della salute del lavoratore ex art. 2087 c.c., quanto meno relativamente all’applicazione di tutte quelle sanzioni nelle quali può incorrere il datore di lavoro per violazione delle disposizioni di tutela della sicurezza e salute del lavoratore di cui al D.Lgs. n. 626/1994.

In particolare, proprio la ricerca di una rilevanza del mobbing in campo penale ci permette di introdurre gli aspetti di tale fenomeno che maggiormente interessano l’argomento delle discussioni odierne.

Infatti, nel caso di mobbing perpetrato nel pubblico impiego, la giurisprudenza ha affrontato anche la possibilità di configurare reati propri dei pubblici dipendenti come in particolare quello di abuso d’ufficio.

Invero, anche in questo caso, come nella fattispecie contemplata dall’art. 572 c.p., risulta penalmente rilevante soprattutto il comportamento del superiore, e quindi nella forma del “bossing”, in quanto può incidere in maniera vessatoria con taluni provvedimenti sulla sfera del lavoratore sottoposto a vincoli gerarchici.

Infatti, si può parlare di abuso d’ufficio, ad esempio, quando i provvedimenti presi da un superiore nei confronti di un dipendente pubblico non siano stati informati ai principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministarzione al fine di arrecargli uno specifico danno per ragioni di inimicizia personale o per trarne un altro vantaggio proprio, (sentenza del 10 giugno 1996, del Tribunale di Modena : Pres. Berlettano, Est. Palazzi, imp. Genazzani)

Si sottolinea, incidentalmente, che per aversi abuso d’ufficio non è sufficiente che il provvedimento sia illegittimo (per la cui illegittimità il dipendente può comunque agire in sede di giudice ammnistrativo per ottenere l’annullamento dell’atto viziato ad es. da eccesso di potere), ma deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall’agente.

Infatti, proprio in tal senso la Corte di Cass. penale, sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 4881, in Riv.Pen., 2000, 575 ha interpretato la nuova formulazione dell’art 323 c.p., ritenendo che con l’introduzione dell’inciso “in violazione di norme di legge o di regolamento”, il Legislatore abbia voluto escludere dalla rilevanza penale le condotte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio poste in essere senza un formale contrasto con positive disposizioni di normazione primaria o secondaria, e quindi i comportamenti affetti solo dal vizio dell’eccesso di potere, per i quali l’incriminazione avrebbe potuto risultare indeterminata.

Tuttavia, come si è già rilevato nel tracciare le caratteristiche del mobbing, il fine perseguito dal mobber di per se non può mai ritenersi legittimo, sia quando l’obbiettivo è indurre la vittima alle dimissioni o è quello di accettare condizioni altrimenti inaccettabili, sia quando l’intendimento sia solo quello di rivalersi sul mobizzato per mera crudeltà ossia per divertimento.

Tenendo in considerazione questa fattispecie, valutando che il comportamento mobbizzante è di per sè tale da connotare l’illiceità tanto della condotta quanto del fine perseguito, mi permetto di rilevare che nel settore pubblico potrebbero astrattamente configurarsi ampi margini di applicazione dell’art 323 c.p.. quale norma incriminatrice del mobbing.

Tuttavia, quanto potrebbe essere valido in via generale per i dipendenti pubblici non contrattualizzati, assume diverse configurazioni per gli altri dipendenti pubblici contrattualizzati o privatizzati che dir si voglia. Infatti, in questi comparti del pubblico impiego, per gli atti di gestione del adottati dal dirigente competente, potrebbe essere contesta la natura pubblica in quanto non espressione diretta o indiretta della funzione amministrativa trattandosi di atti di gestione connotati da natura pattizia privatistica e in quanto tali non autoritativi.

Invero il messaggio che si dovrebbe trarre dalle precedenti argomentazioni, superando la distorta informazione proveniente dai mass media, è che il mobbing, può anche essere reato qualora nel suo compimento vengano consumati dall’autore del mobbing reati disciplinati come tali dall’ordinamento in mancanza di una specifica norma incriminatrice.

L’esatta interpretazione della succitata sentenza della Cassazione penale n. 33624/07 trova riscontro in una recentissima pronuncia della stessa Suprema Corte del 7 novembre 2007 n. 40891 a cui non si può non fare riferimento aggiornando la rassegna di giurisprudenza esaminata nel corso della relazione medesima [3].

Infatti, secondo la Corte di Cassazione penale il mobbing può avere anche rilevanza penale e configurare in particolare il reato di abuso di ufficio (confermando quindi che la Cassazione con la precedente sentenza non ha escluso in astratto la rilevanza penale del mobbing, ma ha soltanto sanzionato la mancanza di determinazione del capo di imputazione così come formulato in quello specifico procedimento penale).

Nondimeno, come avremo modo di precisare, a prescindere dalla rilevanza penale, il mobbing trova pieno riconoscimento e tutela nell’ordinamento a titolo di responsabilità civile dell’autore della condotta e del datore di lavoro in quanto responsabile della salute e della incolumità del lavoratore.

2) La nozione di mobbing

Prima di soffermarsi sulle altre peculiarità del mobbing nel pubblico impiego giova richiamarne brevemente la nozione generale.

Il fenomeno del mobbing ha colpito circa quaranta milioni di lavoratori nell’ambito europeo, comportando per le singole collettività nazionali un costo complessivo di venti milioni di euro[4]. In Italia, i lavoratori vessati sono circa un milione e mezzo pari al quattro per cento dell’intera forza lavoro nazionale: essi hanno una produttività inferiore del settanta per cento e finiscono per far gravare un costo sul datore di lavoro del centottanta per cento in più, soprattutto a causa delle malattie generate dalle continue assenze. Tali dati devono far riflettere sulla esigenza di una azione radicale di contrasto di tale fenomeno che allo stato della vigente normativa non è ancora stata attuata.

Il mobbing è una condotta che si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria, posta in essere sul luogo di lavoro.

Giova ricordare che, il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob” che significa assalire, aggredire in gruppo ed è un termine utilizzato in ornitologia per definire il comportamento aggressivo di alcuni uccelli contro altri.

Le condotte sostanzianti mobbing sono, anzitutto, costituite, in sintesi, da “ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica), per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro”[5]. e normalmente sono dirette ad indurre il destinatario delle stesse a rinunciare volontariamente ad un incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro.

Le condotte, pertanto che costituiscono mobbing devono essere caratterizzate dalla reiterazione con frequenza e costanza, e devono risultare intenzionali, ovverosia “consapevoli” della loro lesività.

La giurisprudenza del giudice ordinario, collegandosi direttamente al lessico e alle nozioni della psicologia del lavoro, ha definito come stress forzato (straining) e non come mobbing la singola condotta ostile, sia pure prolungata nel tempo[6]. anche se per altri orientamenti si potrebbe riscontrare la sussistenza del mobbing anche in presenza di una singola condotta ostile, qualora il soggetto debole riuscisse a dare prova almeno della intenzionalità e della finalità strategica della condotta vessatoria posta in essere a suo danno [7].

Le carateristiche del mobbing possono essere così schematicamente riassunte:

1) condotte vessatorie perpetrate sul luogo di lavoro durante e in ragione dello svolgimento del rapporto di lavoro;

2) (necessaria) pluralità delle condotte offensive (attive od omissive);

3) (necessaria) rappresentazione delle condotte di cui trattisi, nel relativo complesso (per cui diventano rilevanti fatti di per se isolatamente leciti);

4) connessione “teleologica” delle singole condotte;

5) strumentalità delle azioni “mobbizzanti” con fine persecutorio in danno della vittima;

6) intenzionalità generica della condotta emulativa attuata.

Per fare solo qualche esempio si possono definire “indici sintomatici” che consentono di affermare con sicurezza che ci si trovi innanzi ad una reale situazione di mobbing quando si verificano le seguenti circostanze[8]:

critiche continue immotivate e/o esagerate ed effettuate in modo umiliante [9] nonché assalti verbali ed ingiurie;

isolamento del lavoratore dalle informazioni e dalle comunicazioni di servizio al fine di recargli danno[10];

eccessi nel controllare l’operato dell’ impiegato[11];

minaccia dell’esercizio del potere disciplinare ed esercizio illegittimo dello stesso [12];

abuso del ricorso alle visite fiscali durante i periodi di assenza per malattia;

demansionamento o completa inattività [13];

assegnazione a turni di lavoro e a mansioni sgradevoli [14];

sovra utilizzo o sovra mansionamento del dipendente [15];

molestie sessuali [16];

trasferimento illegittimo [17] o distacco illegittimo [18];

licenziamento ingiustificato [19];

esclusione immotivata da benefici economici e giuridici [20] ovvero da incarichi [21] diniego di ferie o ferie coattive;

immotivata esclusione dall’utilizzo di determinate apparecchiature o strumentazioni[22], divieto di accesso in alcuni luoghi di lavoro [23].

Il concetto di mobbing inteso come un complesso di atti e di comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, consente di qualificare come tale un insieme di situazioni, riconducibili ai su menzionati indici sintomatici che, se valutati singolarmente, potrebbero anche non configurarsi come illeciti ma che, se presi in considerazione nel loro insieme, assumono una dimensione particolarmente molesta, caratterizzandosi anche per un elevato contenuto persecutorio nei confronti del lavoratore subordinato al fine di isolarlo, emarginarlo, fino a provocarne l’espulsione dal posto di lavoro.

La progressione delle condotte mobbizzanti segue nei casi tipici un processo che viene suddiviso in quattro fasi (modello di Leymann) [24]:

1) conflitto quotidiano che non costituisce il vero mobbing ma può determinarne le cause;

2) inizio del mobbing e terrore psicologico; il conflitto quotidiano diviene mirato, sistematico e continuativo;

3) verificarsi degli abusi più gravi e di solito coinvolgimento del datore di lavoro azienda / ente che prende posizione attiva o passiva contro il lavoratore che inizia ad avvertire le conseguenze negative psicofisiche e ad assentarsi dal lavoro per malattia;

4) uscita dal mondo del lavoro della vittima per dimissioni – licenziamento.

3) La responsabilità del datore di lavoro

Il fenomeno del mobbing assume un rilievo giuridico per il nostro ordinamento e trova nell’art. 2087 C. C. lo strumento giuridico per tutelare il lavoratore, ove testualmente è stabilito che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro” Ogni datore di lavoro è obbligato ad adottare all’interno della propria azienda non solo quelle misure imposte in maniera tassativa da leggi e da regolamenti, ma anche tutti gli altri accorgimenti che siano necessari ad assicurare la piena integrità fisica e tutelare la completa personalità morale dei propri dipendenti[25].

Pertanto, la violazione degli obblighi discendenti dall’art. 2087 c.c. secondo la prevalente giurisprudenza costituiscono fonte di responsabilità contrattuale gravante sul datore di lavoro, facendo rientrare il principio generale del neminen laedere nel contenuto del contratto individuale di lavoro[26].

L’art. 2087 c.c., obbligando il datore di lavoro a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, si presta a proteggere il lavoratore anche da una serie di pregiudizi conseguenti all’attività mobbizzante, ulteriori rispetto alle tradizionali voci del danno patrimoniale e del danno biologico, come ad es. il danno da demansionamento. Altri indirizzi giurisprudenziali, minoritari, che rinvengono invece l’essenza giuridica del mobbing in una responsabilità di tipo extracontrattuale, fondano la responsabilità dell’autore della condotta mobizzante nell’art. 2043 c.c.[27]; mentre si deve dare conto anche di altre decisioni che, mediando le due precedenti posizioni giurisprudenziali, ravvisano in capo al datore di lavoro una compresenza della responsabilità contrattuale e di quella extracontrattuale [28].

4) Le conseguenze psicofische e i danni risarcibili

Le patologie conseguenti al mobbing sono state individuate in:

alterazioni socio emotive come depressione, ansia, attacchi di panico, che vengono riferite al disturbo da stress di orgine post traumatica;

alterazioni psicofisiologiche: cefalee, vertigini, disturbi gastrointestinali, tachicardia, disturbi del sonno e della sessualità;

disturbi del comportamento: anoressia, bulimia, abuso di alcool, fumo, farmaci.

Si possono configurare tre diversi tipi di danno non patrimoniale discendenti dal mobbing: il danno biologico, il danno esistenziale e il danno alla sfera professionale identificabile nel danno da dequalificazione e da demansionamento [29].

L’ipotesi del risarcimento del danno biologico postula un duplice accertamento dei fatti: innanzitutto l’accertamento relativo alla sussistenza di un atteggiamento ingiustificatamente vessatorio e, successivamente, l’accertamento dell’esistenza di effetti pregiudizievoli per l’equilibrio psico-fisico del dipendente direttamente connessi alla pratica di mobbing. La determinazione del risarcimento del danno, è successiva a tale duplice accertamento.

Le conseguenze del danno devono ritenersi molteplici in quanto relative alla potenzialità economica (danno patrimoniale puro), alla salute psicofisica (danno biologico e morale), alla dimensione professionale (danno d’ordine professionale e d’immagine).

Circa il danno professionale la quantificazione del danno avviene riguardo ad una percentuale delle retribuzioni mensili che in alcuni casi per la gravità della condotta è stata anche determinata in via equitativa nella misura del 100% della retribuzione mensile.

La complessiva rilevanza del fenomeno del mobbing non va sottovalutata se l’I.N.A.I.L. ai sensi dell’art. 10, c. 4, Decreto Legislativo n. 38 del 2000 lo ha inserito negli studi sulle nuove patologie professionali. Tuttavia il TAR Lazio, sede di Roma, ha annullato la circolare dell’I.N.A.I.L. 17 dicembre 2003 contenente le modalità di trattazione delle pratiche riguardanti i disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro e le diagnosi di malattie professionali all’interno della quale si faceva riferimento proprio al mobbing [30]. La circolare postulava la sussistenza del nesso di causalità tra comportamenti vessatori e stato patologico usualmente a carico del lavoratore danneggiato, trattando i disturbi che dipendevano da “costrittività organizzata” come una malattia tabellata senza il preventivo accertamento da parte della commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle tabelle, ex artt. 3 e 211, DPR n. 1124 del 1965.

5) Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità

Le controversie in materia di mobbing nel pubblico impiego devono essere deferite ex art. 63, comma 1, dlgs n. 165 del 2001, al giudice ordinario anche per i pubblici dipendenti contrattualizzati trattandosi di cause relative al rapporto di lavoro.

Tuttavia permane la giurisdizione del Giudice Amministrativo nei casi  di controversie relative al pubblico impiego non contrattualizzato come  il personale delle Forze Armate o delle Forze di Polizia, settori in cui si registrano molti episodi di mobbing.

L’azione di risarcimento del danno da mobbing ha, come abbiamo visto, natura contrattuale perché discende dalla violazione da parte del datore di lavoro di obblighi che trovano la loro fonte direttamente nel contratto di lavoro.

Così ha stabilito l’ordinanza n. 6311 del 6 dicembre 2000 del Consiglio di Stato che ha, per la prima volta, esaminato il tema del mobbing nel pubblico impiego, riconoscendo la competenza del giudice ordinario per decidere su di una richiesta di condanna avanzata da un dipendente per danno biologico conseguente ad azioni vessatorie poste in essere nei suoi confronti.

Nella controversia relativa ad un rapporto di lavoro pubblico non privatizzato, la scelta tra la natura contrattuale o extra contrattuale del risarcimento del danno da mobbing, ha estrema rilevanza ai fini della determinazione del giudice che ha giurisdizione per la cognizione della causa rispetto alla domanda di risarcimento dei danni proposta dal pubblico dipendente e fondata sull’esistenza di comportamenti vessatori dell’amministrazione di appartenenza.

Infatti, qualora si tratti di un’azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo mentre, se si tratti di un’azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario [31].

Nel caso di azione per responsabilità contrattuale, la cognizione della domanda di risarcimento del danno rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche nei casi (ormai difficilmente configurabili per il decorso della prescrizione) in cui la controversia abbia per oggetto una questione relativa a un periodo antecedente al 30 giugno 1998, data a partire dalla quale il decreto legislativo n. 80 del 1998 ha devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione[32].

Le cause per mobbing non possono rientrare nella giurisdizione amministrativa (se non nel caso del dipendenti non contrattualizzati) nemmeno qualificandole come controversie  in materia di pubblici servizi “posto che l’art. 33, comma 2, lettera e), decreto legislativo n. 80 del 1998 ( testo modificato dalla legge 21 luglio del 2000 n. 205), esclude dalla giurisdizione amministrativa le controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o alle cose”[33].

In particolare, il risarcimento del danno consistente nella lesione dell’integrità psicofisica, seguita ad un provvedimento di destituzione dall’impiego dichiarato illegittimo, ha natura extracontrattuale e rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, esulando dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[34].

A seguito dell’introduzione di “logiche” privatistiche nell’organizzazione e nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni previste dal decreto legislativo n. 165 del 2001, è prevedibile una crescita esponenziale del fenomeno. In particolare, nel lavoro pubblico sono infatti, aumentate le potenzialità di produzione di comportamenti di mobbing verticale, cioè di quello esercitabile  da chi si trovi in una posizione di supremazia gerarchica, soprattutto in relazione alla nuova configurazione delle funzioni e dei poteri della dirigenza pubblica. Il maneger pubblico infatti svolge le sue funzioni in relazione ad obiettivi da raggiungere e di conseguenza accentua le sue funzioni di autonomia nella gestione e nella organizzazione del personale ovvero nella gestione dei rapporti di lavoro (art. 16, comma 1, lettera h), decreto legislativo n. 165 del 2001) esercitando poteri  sempre più simili a quelli del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, decreto legislativo n. 165 del 2001).

Ci si chiede se, nell’ambito di un rapporto di lavoro con un ente pubblico, il principio costituzionale rinvenibile nell’articolo 97 che stabilisce regole di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione e la presenza di specifiche norme di legge, come gli articoli 1, 2 e 7 del DLGS n. 165/2001 che impongono una gestione delle risorse umane improntata a criteri di efficienza, economicità, valorizzazione della formazione e aggiornamento del personale, possano comunque far emergere limiti più marcati nella gestione del personale forti a tal punto da evitare la possibilità di abusare dei margini di discrezionalità di cui godono i dirigenti pubblici.

Ad ogni buon conto, il dirigente pubblico è sicuramente soggetto al dettato dell’art. 2087 c.c. ed è, dunque, tenuto ad adottare nell’esercizio delle sue funzioni dirigenziali le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, siano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il fenomeno del mobbing viene spesso impropriamente identificato con il demansionamento del dipendente. In realtà quest’ultimo fenomeno, se quasi sempre si  accompagna all’attività  mobizzante, costituisce già di per sé un illecito sul piano contrattuale sanzionato autonomamente dall’articolo 2103 c.c. oltre a poter anche rivestire rilevanza penale come abuso d’ufficio così come riconosciuto dalla Cassazione in relazione al rapporto di pubblico impiego.

Un pronuncia particolarmente interessante sul punto, è quella del Tribunale di Trieste in un caso di demansionamento che con la sentenza del 10 dicembre 2003, ha affermato la responsabilità sia dell’ente pubblico che del suo rappresentante, in quanto diretto agente a titolo personale. La responsabilità dell’ente pubblico locale territoriale è stata riconosciuta piena: contrattuale ai sensi degli articolo 2087 e 1228 del codice civile ed extracontrattuale in base agli articoli 2043 e 2049 del codice civile; al contempo indiretta (per fatto del proprio dipendente) ma diretta per fatto (omissivo ) proprio. Ad essa si è aggiunta in veste solidale quella del segretario generale dell’ente. La compresenza di una responsabilità solidale tra l’ente locale ed il suo segretario generale induce ad un ulteriore serie di osservazioni connesse alla particolarità della materia nell’ambito di un ente pubblico locale. Viola l’articolo 2087 del codice civile l’ente pubblico che ometta di salvaguardare la professionalità, il ruolo, la dignità personale, la salute del proprio funzionario, consentendo al superiore – segretario generale di continuare e perseverare nell’illecita condotta persecutoria nei confronti dell’impiegato sottoposto.

Ci si chiede in proposito se alla responsabilità propria del responsabile dell’ente, possano aggiungersi forme di responsabilità tipiche della funzione pubblica espletata dal dirigente dell’ente. Va ricordato che anche in forza dell’articolo 28 della Costituzione è sancita la diretta responsabilità del funzionario pubblico in quando detta attività si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente stesso con la specifica volontà di abusare della propria funzione[35],. La norma costituzionale trova applicazione ed estensione negli articoli 22 e 23 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3 e nelle specifiche ipotesi di responsabilità penale del dipendente pubblico.

Infatti, l’attività illecita del dirigente perpetrata nei confronti del lavoratore potrebbe teoricamente ipotizzare reati tipici della funzione pubblica come l’abuso d’ufficio. In realtà, la riforma del rapporto di lavoro pubblico nel pubblico impiego contrattualizzato ha modificato in radice i poteri del dirigente nei confronti dei propri dipendenti; egli infatti non dispone più di poteri di tipo autoritativo, bensì di poteri di fonte pattizia e quindi direttivi.

In tal modo, un trasferimento, un procedimento disciplinare, una scelta di un candidato da selezione per l’accesso ad una qualifica superiore, una modifica delle mansioni svolte e del luogo della prestazione di lavoro, un licenziamento sono atti di gestione che trovano fondamento nel contratto nazionale e integrativo di lavoro.

In tal modo si potrà agire nei confronti del dirigente solo mediante la tutela antidiscriminatoria di diritto comune, semmai configurando a carico del funzionario che ha agito in maniera illecita le forme ordinarie di reato quali lesioni, ingiurie, ecc., o eventualmente anche la su menzionata evidenziata violazione dell’art. 572 c. p, nonché la specifica responsabilità disciplinare prevista dall’articolo 21 del DLGS n. 165/2001.

Tuttavia qualora invece il mobbing si realizzasse al di fuori dell’azione gestoria di un dirigente, e quindi come conseguenza di un vizio tipico dell’azione amministrativa, come nel caso di mobbing determinato per uno scavalcamento di carriera subito ingiustamente da un dipendente, che configura il vizio dell’eccesso di potere, potrebbe avere una rilevanza nei reati propri dei pubblici ufficiali.

Sul punto deve essere richiamata una recentissima sentenza della Cassazione Penale che costituisce la prima pronuncia di legittimità in cui si accerta la responsabilità penale di un “datore di lavoro” pubblico con l’addebitamento della consumazione del reato di abuso d’ufficio in relazione ad una fattispecie di mobbing [36].

Il caso de quo si riferisce a un sindaco che ha demansionato una dipendente che in origine svolgeva mansioni di coordinatrice – economa presso l’ufficio del nido comunale trasferendola in altro ufficio amministrativo competente all’accertamento delle sanzioni in materia di sosta.

La Suprema Corte ha chiaramente evidenziato come la tutela deve procedere su due distinti due piani: da un lato quello civilistico e dall’altro quello penale (ancorché nel caso di specie il reato di abuso di ufficio sia stato dichiarato prescritto), ritenendo sussistente il reato di abuso d’ufficio in quanto il pubblico ufficiale – sindaco, ha volontariamente arrecato un danno ingiusto alla dipendente comunale demansionata.

In caso di mobbing accertato in sede giudiziaria, deve essere valutata anche la responsabilità dirigenziale per cattiva gestione delle risorse umane ex art. 21, decreto legislativo n. 165 del 2001. La cattiva gestione delle risorse umane rappresenta infatti uno dei risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione imputabile al dirigente che può comportare l’applicazione delle conseguenze previste dall’ordinamento, come il mancato conferimento della retribuzione di risultato, la revoca dell’incarico o anche la destinazione ad altro incarico

Un’ altra sentenza di rilievo è quella del T.A.R. Abruzzo, Pescara, 23 marzo 2007, n. 339[37], che ha riconosciuto concorrente come detto, la responsabilità contrattuale con quella extracontrattuale, con la conseguenza sul piano processuale, di rendere applicabile la disciplina dell’onere probatorio più agevole per il ricorrente, ossia quello contrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., ritenendola “la norma più confacente alle ipotesi di mobbing, in quanto trasferisce in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, ripartendo l’onere della prova, così che grava sul datore di lavoro l’onere di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore, che, esentato dall’onere di provare il dolo o la colpa del datore di lavoro, è tenuto solo a provare la lesione dell’integrità psicofisica ed il rapporto causale tra il comportamento datoriale e il pregiudizio alla salute (Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003, n. 157)”.

Nella specie, il giudice amministrativo ha condannato la pubblica ammistrazione perché ha ritenuto che nessuna iniziativa concreta era stata assunta dagli organi di vertice della struttura penitenziaria (nel caso de quo) per bloccare l’uso distorto che i due superiori del mobbizzato avevano fatto del loro potere gerarchico.

Il mobbing nel pubblico impiego si connota inoltre per una serie di conseguenze ulteriori derivanti dal riconoscimento del danno nei confronti del lavoratore.

Una condanna della P.A. per danno biologico da mobbing comporta, tra le altre conseguenze, un danno per l’erario di cui l’autore può essere chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei Conti.

L’eventuale sentenza di condanna infatti colpisce anche l’ente di appartenenza in quanto questo è solidalmente responsabile ex art. 28 della Costituzione con il proprio dipendente che ha posto in essere il comportamento vessatorio mentre i conseguenti esborsi monetari costituiscono, a loro volta, “danno erariale”, cioè ” ingiusta lesione di un interesse economicamente valutabile di pertinenza dello Stato” ( Cass. SS.UU. 4 gennaio 1980, n. 2).

D’altra parte, la responsabilità contabile dei rappresentanti dell’Ente, viene in gioco anche quando sia direttamente l’ente a essere condananto queale “datore di lavoro”. Come abbiamo visto nei casi sopra esposti relativi alla Camera di commercio di Trieste e al carcere di Pescara.

Ove si verifichi tale situazione, la Corte dei Conti deve esercitare obbligatoriamente l’azione di regresso tesa ad ottenere il reintegro del patrimonio della P.A. attraverso il recupero nei confronti dell’autore del fatto illecito dannoso delle somme cui la P.A. è stata costretta all’esborso a causa della condotta del proprio dipendente[38].

Tra l’altro l’orientamento della Corte dei Conti di ravvisare la responsabilità erariale solo in presenza di dolo o colpa grave (come ha avuto modo di brillantemente esporre il Collega Avv. Livio Lavitola nel corso del suo intervento), non pone particolari limiti alla sussistenza della responsabilità dal punto di vista dell’elemento soggettivo perché nel caso di mobbing la volontarietà nonché la consapevolezza della lesività dei comportamenti rappresentano elementi costituivi della fattispecie penalmente e civilmente rilevante sia per quanto riguarda l’autore del mobbing che la pubblica amministrazione – datore di lavoro per la colpevole omissione di cautele, e quindi possono trovare già compiuti elementi di prova nella stessa sentenza che condanna la pubblica amministrazione venendo riconfermati dal procuratore della Corte dei Conti.

Si può auspicare che lo strumento del controllo contabile responsabilizzando direttamente i singoli poubblici dipendenti, porti ogni grado della pubblica amministrazione a sentire con maggiore responsabilità la necessità di interventi di verifica e controllo anche di natura preventiva sui fenomeni che possono dare origine al mobbing.

In questo modo si potrebbe bloccare quella terza fase dello sviluppo del mobbing in cui all’iniziativa del singolo “mobber” si affianca l’allontanamento anche del datore di lavoro Ente/azienda che prende le distanze dal lavoratore mobbizzato con omissioni o con colpevoli acquiescenze agli atti arbitrari compiuti dal mobbizzante.

[1] Cfr. Il mobbing è (ancora) reato, o no(n più)? di Giampaolo Perdonà e Elena Blu Fabris in www.altalex.it

[2] Responsabilità penale che potrebbe anche essere riscontrata oltre che nel suddetto abuso d’ufficio anche in omissione di atti d’ufficio

[3] [3]  Corte di Cassazione penale, Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891.

[4] I dati statistici europei sono forniti dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (A. E.  S. S. L.).

[5] PROIA G., Alcune considerazioni sul cosiddetto mobbing, in Argomenti di diritto del lavoro, 2005, 827.

[6] Tribunale di Bergamo, 20 giugno 2005, in Il foro Italiano, 2005, I, 3355: nel caso di specie, il demansionamento di una dipendente, protrattosi per un lungo lasso temporale, ma non accompagnato da altri concomitanti comportamenti ostili, configura condotta di straining e non di mobbing, fonte del diritto della lavoratrice dipendente di ottenere il risarcimento del danno alla professionalità, del danno biologico e del danno morale.

[7] Tribunale di Marsala, 5 novembre 2004, in Il foro Italiano, 2005, I, 3355.

[8] Per i puntuali riferimenti di giurisprudenza che seguono cfr. DE PAOLIS M., Le responsabilità dei dipendenti e degli amministratori pubblici, Maggioli Editore, 2007.

[9] Tribunale civile di Forlì, 10 maggio 2005; Tribunale civile di Agrigento 1 febbraio 2005;Tribunale civile di Milano, 28 febbraio 2003.

[10] Corte di Appello di Torino, 21 aprile 2004; Tribunale civile di Trieste 10 dicembre 2003; Tribunale civile di Tempio Pausania. 1 luglio 2003; Corte di Appello di Salerno, 17 aprile 2002; Tribunale civile di Bari, 29 settembre 2001.

[11] Tribunale civile di Milano, 29 giugno 2004.

[12] Tribunale civile di Sassari, 2 luglio 2005; Tribunale civile di Agrigento, 2 febbraio 2005; Corte di Appello di Torino, 21 aprile 2004; Tribunale civile di Trieste, 10 dicembre 2003.

[13] Tribunale civile di Bergamo, 20 luglio 2005; Tribunale civile di Sassari, 2 luglio 2005; Tribunale civile di La Spezia 1 luglio 2005; Cass. Civile, 23 marzo 2005, n. 6326; Tribunale civile di Pinerolo, 3 marzo 2004; Tribunale civile di Viterbo, 30 aprile 2003; Tribunale civile di Lecce, 31 agosto 2001; Tribunale civile di Bari, 29 settembre 2000.

[14] Tribunale civile di Milano, 29 giugno 2004.

[15] Tribunale civile di Milano 29 giugno 2004; Tribunale civile di Milano, 28 febbraio 2003.

[16] Tribunale di Pisa, 7 ottobre 2001; Tribunale di Torino 16 novembre 1999.

[17] Corte di Appello di Salerno, 17 aprile 2002.

[18] Tribunale civile di Viterbo, 30 aprile 2003.

[19] Corte di Appello di Torino, 21 aprile 2004.

[20] Tribunale civile di La Spezia, 1 luglio 2005.

[21] Tribunale civile di Agrigento, 1 febbario 2005.

[22] Tribunale civile di Forlì, 10 marzo 2005.

[23] Corte di Appello di Torino, 21 aprile 2004.

[24] Menelao, Della Porta, Rindonone, , Milano 2001

[25] Cass. Civile, Sez. Lavoro, 6 marzo 2006, n. 4774 la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del dipendente, rappresenta una palese violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 C.C.

[26] Cass. Civile, Sez. Lavoro, 8 gennaio 2000, n. 143; Tribunale di Tempio Pausania, Sez. Lavoro, 10 luglio 2003, in Il merito, 2004, 19.

[27] Cass. Civile, Sez. Lavoro, 5 febbraio 2000, n. 1307.

[28] Cass. Civile, Sez. Lavoro, 21 dicembre 1998, n. 12763 e 17 luglio 1995, n. 7768.

[29] Tribunale di Agrigento, 1 febbario 2005.

[30] TAR Lazio, Roma, Sez. III–ter, 4 luglio 2005, n. 5445. BUSSINO T., Annullata la circolare Inail n. 71/2003 sulle patologie psichiche da mobbing, in Lavoro e previdenza oggi, 2005, 2017.

[31]TAR Lazio, Roma, Sez. I – quater, 17 aprile 2007;. Vedi anche Cass. Civile, Sez. Unite, 4 maggio 2004, n. 8438; Cass. Civile, Sez. Unite, 22 maggio 2002, n. 7470.

Quanto detto non esclude, in taluni casi particolari, il cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, con la conseguente devoluzione della causa al giudice amministrativo (TAR Lazio, Sez. III – bis , 25 giugno 2004, n. 6254); cfr. anche sentenza TAR Abruzzo 23 marzo 2007, n. 339, di seguito analizzata.

[32] Corte di Cassazione a Sezioni Unite il 4 maggio 2004, n. 8438.

[33] Cass. Civile; Sez. Unite, 29 gennaio 2002, n. 1147: il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un agente della Polizia di Stato che aveva intentato una causa contro il Ministero degli Interni.

[34] Cons. Stato, Sez. IV, 3 settembre 2001, n. 4629. TAR Liguria, Sez. I, 12 marzo 2003, n. 302 per cui il giudice amministrativo ha dichiarato la carenza di giurisdizione qualificando l’azione qulae responsabilità extracontrattuale.

[35] Mele, La responsabilità dei dipendenti e degli amministratori pubblici, Giuffrè, 2000, 68.

[36]  Corte di Cassazione penale,  Sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891.

[37] Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro, RIDL, I, 251, 268.

[38] Corte dei Conti, sez. Regione Toscana, sentenza n. 623/2005.