Corte Costituzionale, 10 marzo 2022, n. 62

Elezioni – Elezioni amministrative – Comuni con meno di cinquemila abitanti – Liste elettorali – Principio della parità di genere – Omessa applicazione – Art. 71, comma 3-bis, d. lgs. 18 agosto 267 e art. 30, comma primo, lett. d-bis) ed e), D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 –  Illegittimità costituzionale – Testo integrale della sentenza

Corte Cost., sent., 10 marzo 2022, n. 62

Presidente Amato – Redattore De Pretis

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 4 giugno 2021, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2021, il Consiglio di Stato, sezione terza, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e dell’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali).

L’art. 71 t.u. enti locali disciplina l’elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti. Il suo comma 3-bis, inserito dall’art. 2, comma 1, lettera c), numero 1), della legge 23 novembre 2012, n. 215 (Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni), prevede quanto segue: «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Nelle medesime liste, nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi».

Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti».

L’art. 30 del d.P.R. n. 570 del 1960 disciplina i compiti spettanti alla «Commissione elettorale mandamentale» dopo la presentazione delle candidature nei comuni sino a 10.000 abitanti, nell’ambito del procedimento preparatorio alle elezioni dei consigli comunali. In particolare, la lettera d-bis) censurata – dapprima inserita dall’art. 4, comma 1, della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81, sull’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale) e successivamente così sostituita dall’art. 2, comma 2, lettera a), numero 1), della legge n. 215 del 2012 – prevede che, entro il giorno successivo a quello della presentazione delle candidature la Commissione: «verifica che nelle liste dei candidati, per le elezioni nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, sia rispettata la previsione contenuta nel comma 3-bis dell’articolo 71 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. In caso contrario, riduce la lista cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati, procedendo in tal caso dall’ultimo della lista. La riduzione della lista non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima»; mentre la lettera e), modificata dall’art. 2, comma 2, lettera a), numero 2, della legge n. 215 del 2012, prevede che la medesima Commissione «ricusa le liste che contengono un numero di candidati inferiore al minimo prescritto e riduce quelle che contengono un numero di candidati superiore al massimo consentito, cancellando gli ultimi nomi in modo da assicurare il rispetto della previsione contenuta nel comma 3-bis» dell’art. 71 t.u. enti locali.

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale di questa disposizione «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista” […] le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti».

Le questioni sono sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 51, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000.

1.1.– L’incidente di costituzionalità è sorto nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania n. 6185 del 16 dicembre 2020, che ha respinto il ricorso proposto da A. F. e L. D.L. nella qualità di elettori e componenti di una lista elettorale denominata «(omissis)», partecipante alle elezioni tenutesi il 21 e 22 settembre 2020 per il rinnovo del consiglio comunale di (omissis), comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

I ricorrenti, sull’assunto che la sottocommissione elettorale circondariale, decidendo il loro reclamo, avrebbe illegittimamente negato la ricusazione dell’unica lista concorrente denominata «(omissis)», in quanto composta senza candidature femminili, avevano chiesto l’annullamento dei provvedimenti di convalida e di proclamazione degli eletti, la rettifica dei risultati elettorali e l’assegnazione agli stessi ricorrenti, quali secondo e terzo dei non eletti, dei seggi ottenuti da tale lista concorrente.

Il TAR Campania, nel respingere il ricorso, ha ritenuto che l’art. 2, comma l, lettera c), numero l), della legge n. 215 del 2012, recante modifiche al t.u. enti locali e al d.P.R. n. 570 del 1960, pur prevedendo il controllo e il diretto intervento delle commissioni elettorali circondariali a garanzia della rappresentanza di entrambi i sessi anche nelle liste dei candidati relative ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, non appresterebbe tuttavia misure sanzionatorie a carico delle liste che non assicurino tale rappresentanza. A suo giudizio, inoltre, non è possibile interpretare in via analogica le disposizioni sulla parità di genere previste per le elezioni nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, per il carattere speciale della disciplina elettorale.

1.2.– Il rimettente osserva, in primo luogo, che l’attuale quadro normativo prevede «tre livelli di tutela» della parità di genere nelle elezioni dei consigli comunali, diversamente operanti a seconda del numero degli abitanti del comune.

Il livello «massimo» riguarderebbe i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, per i quali operano «due differenti meccanismi, uno di riduzione e l’altro di esclusione» delle liste. La regola secondo cui «nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi puo` essere rappresentato in misura superiore a due terzi» (art. 73, comma 1, t.u. enti locali, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera d, numero 1, della legge n. 215 del 2012) è presidiata dall’art. 33, primo comma, lettera d-bis), del d.P.R. n. 570 del 1960 (lettera così sostituita dall’art. 2, comma 2, lettera b, numero 1, della legge n. 215 del 2012), in base al quale la commissione elettorale mandamentale «riduce la lista cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere più rappresentato, procedendo dall’ultimo della lista, in modo da assicurare il rispetto del […] comma 1 dell’articolo 73 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, e successive modificazioni». Qualora poi «la lista, all’esito della cancellazione delle candidature eccedenti, contenga un numero di candidati inferiore a quello minimo prescritto», essa viene ricusata (art. 33, primo comma, lettera d-bis).

Un livello «intermedio» di tutela opererebbe invece per i comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti. Anche in questo caso «nessuno dei due sessi puo` essere rappresentato in misura superiore ai due terzi» (art. 71, comma 3-bis, secondo periodo, t.u. enti locali), ma il rimedio al superamento del limite è costituito solo dalla riduzione delle liste mediante cancellazione dei nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi, procedendo dall’ultimo dei candidati. Non è invece prevista la ricusazione, stabilendosi che «[l]a riduzione della lista non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima» (art. 30, primo comma, lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Infine, per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, l’unica previsione di riequilibrio di genere sarebbe quella contenuta nell’art. 71, comma 3-bis, primo periodo, t.u. enti locali, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi». Secondo il rimettente, «la rubrica della norma “elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti” consente con certezza di estendere la sua efficacia ai Comuni che presentino tale densità anagrafica e tuttavia non è prevista dalla vigente normativa alcuna misura sanzionatoria a carico delle liste che non assicurino la rappresentanza di entrambi i sessi».

1.3.– Dopo avere così ricostruito il quadro normativo, il rimettente osserva, quanto alla rilevanza, che il giudizio a quo non potrebbe essere definito senza applicare l’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali, come inserito dall’art. 2, comma 1, lettera c), numero 1), della legge n. 215 del 2012. La sua applicazione – e quindi il «mancato obbligo di rappresentatività di entrambi i generi nelle liste elettorali in Comuni con meno di 5.000 abitanti e [dalla] contestuale assenza di meccanismi sanzionatori e deterrenti contro la violazione del principio della parità di genere» – comporterebbe il rigetto dell’appello. L’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale nei termini posti dallo stesso giudice a quo imporrebbe invece l’esclusione della lista «(omissis)», l’annullamento del risultato elettorale e la proclamazione degli appellanti quali consiglieri comunali.

Il rimettente esclude la possibilità di interpretare le disposizioni censurate in senso costituzionalmente orientato. In particolare, il citato art. 71, comma 3-bis, non potrebbe essere interpretato nel senso che «la presenza obbligatoria di persone appartenenti ad entrambi i sessi [sarebbe] prescritta per tutti i Comuni, a prescindere dal numero di abitanti ma, nei Comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, tale presenza non [potrebbe] essere rappresentata in misura superiore ai 2/3», con la conseguenza che, ragionando a contrario, per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti la presenza di entrambi i generi dovrebbe essere assicurata «senza che venga in rilievo un limite minimo né massimo».

Questa interpretazione contrasterebbe, sia con il dato letterale, sia con quello sistematico del censurato comma 3-bis. Nonostante nel suo incipit la disposizione sembri disporre un obbligo generalizzato di rappresentanza di entrambi i sessi a prescindere dal numero degli abitanti del comune, nella sua seconda parte «non risponde al canone di generalità» e prevede una riserva di quote solo nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti. Questa conclusione troverebbe conferma, sul piano sistematico, sia nell’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960, anch’esso oggetto di censura, che predispone «misure sanzionatorie» solo in riferimento ai comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, sia nell’art. 71, comma 5, t.u. enti locali, che prevede la “doppia preferenza di genere” quale ulteriore misura di riequilibrio tra i sessi, ma sempre nei soli comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti.

Il rimettente esclude altresì che possa essere applicata in via analogica la disciplina relativa ai «Comuni più grandi», in quanto il legislatore, «pur dopo avere espressamente previsto l’obbligo di assicurare la parità di genere nelle elezioni di qualsiasi Comune, [avrebbe] chiaramente e volutamente omesso di disciplinare le conseguenze della violazione di tale obbligo nei Comuni più piccoli», sicché un’estensione analogica «equivarrebbe ad un’attività di creazione legislativa». In tale senso deporrebbero anche i lavori preparatori della legge n. 215 del 2012 (è citato un «Dossier studi n. 376/12», che circoscriverebbe la portata applicativa di tale legge ai «Comuni con popolazione pari o superiore a 5.000 abitanti») e una circolare del Ministero dell’interno.

Non sarebbe percorribile, infine, neppure la via della disapplicazione delle norme censurate per contrasto con l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Si tratterebbe infatti di un parametro privo di «efficacia immediata e diretta, quanto meno con riferimento alla legislazione promozionale», essendo rimessa al legislatore nazionale la scelta degli strumenti per l’affermazione del principio di parità.

1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricorda la giurisprudenza costituzionale e sovranazionale in materia elettorale – materia in cui l’ampia discrezionalità del legislatore è sindacabile entro margini ridotti da questa Corte, che la potrebbe scrutinare sotto il profilo della proporzionalità – e lamenta innanzitutto il contrasto con l’art 51, primo comma, Cost. Di esso è invocata la natura precettiva, e non meramente programmatica, quanto alla necessità di predisporre misure dirette a colmare le diseguaglianze di genere nella partecipazione politica, anche al fine di assicurare pieno riconoscimento a un diritto politico fondamentale con i caratteri dell’inviolabilità ai sensi dell’art. 2 Cost.

Dopo avere descritto gli interventi normativi succedutisi nel tempo a favore della parità di genere, con particolare riguardo alle «azioni positive» previste all’art. 42, comma 1, del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), il rimettente osserva che la normativa adottata a vari livelli in materia elettorale, ivi compresa la legge n. 215 del 2012, si sarebbe concentrata sul sistema delle “quote”. Solo per le elezioni comunali permarrebbe una differenziazione di regime in ragione delle diverse dimensioni dei comuni, tale per cui in quelli con popolazione inferiore a 5.000 abitanti opererebbe unicamente il vincolo di una generica rappresentanza di entrambi i sessi». E ciò, nonostante che i «contesti aggregativi di modeste dimensioni […] rappresentino dei centri propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese», come dimostra il fatto che, secondo dati statistici (è citato un rapporto dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani – ANCI – del 5 luglio 2019, intitolato «Atlante dei piccoli comuni») essi corrispondono a oltre i due terzi del numero totale dei comuni italiani e vi risiedono quasi dieci milioni di persone.

La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe giustificata dalla presunta difficoltà di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che comunque eventuali difficoltà derivanti dalla «carenza demografica» prescindono dal genere dei candidati.

L’assenza per tali comuni di un meccanismo sanzionatorio del mancato rispetto del vincolo neutralizzerebbe l’intervento di promozione, impedendo un’effettiva realizzazione della parità di genere. La ratio della legge n. 215 del 2012, diretta a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione all’organizzazione politica, sarebbe infatti svuotata dalla mancata previsione di misure di tutela proprio nelle realtà demograficamente più svantaggiate, «in cui è oggettivamente più difficile valorizzare il patrimonio umano e professionale delle donne».

La mancata previsione dell’obbligo di «liste miste» nei comuni con meno di 5.000 abitanti renderebbe, inoltre, di fatto inapplicabile in essi l’art. 6, comma 3, t.u. enti locali, secondo cui «[g]li statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per garantire […] la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonchè degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti».

1.4.1.– Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost. (che costituirebbe un «prius logico-giuridico dell’art. 51 Cost.»), il rimettente ritiene irragionevole che non sia previsto «alcun vincolo nella formazione delle liste elettorali nei Comuni fino a 5.000 abitanti» e che gli aspiranti candidati restino privati «di ogni forma di tutela avverso le violazioni del principio di parità di genere nelle competizioni elettorali, principio che […] è stato per essi espressamente affermato dallo stesso legislatore».

Oggetto di censura non sarebbe, dunque, la scelta «di articolare discipline diverse che teng[a]no conto delle dimensioni dei Comuni», ma quella di «non avere dato concretezza al principio di parità di genere». Predisponendo regimi di tutela differenziati, il legislatore avrebbe introdotto un’ingiustificata disparità di trattamento quanto all’esercizio del diritto inviolabile di elettorato passivo. Escludere dall’ambito di applicazione del principio di parità milioni di cittadine per il solo fatto di vivere in comuni di piccole dimensioni, inoltre, non sarebbe razionale, non essendovi alcuna evidenza statistica, sociologica o scientifica che dimostri l’inutilità di un intervento di riequilibrio delle rappresentanze di genere in tali realtà.

Analoghe considerazioni varrebbero, secondo il giudice a quo, quanto alla violazione del divieto di discriminazione contenuto all’art. 14 CEDU e all’art. 1 Prot. addiz. n. 12 CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Ad avviso del rimettente la discriminazione si realizzerebbe su due piani: per un verso tra il genere maschile (storicamente più rappresentato) e quello femminile; per l’altro, all’interno dello stesso genere femminile, a seconda che si tratti di comuni con più di 5.000 abitanti, in cui sarebbe assicurata la presenza di candidati di entrambi i sessi, e comuni con numero inferiore di abitanti, in cui le donne rischiano di rimanere completamente escluse dalla vita politica. Il vulnus coinvolgerebbe inoltre lo stesso principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

1.4.2.– Secondo il rimettente, infine, tutti gli argomenti svolti con riguardo all’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali, varrebbero «in maniera speculare» anche per l’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960.

2.– Con memoria depositata il 28 settembre 2021 si sono costituiti in giudizio A. F. e L. D.L., appellanti nel processo principale, che hanno chiesto l’accoglimento delle questioni.

2.1.– L’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali avrebbe natura precettiva e non programmatica e richiederebbe la necessaria presenza di candidati di entrambi i sessi anche per i piccoli comuni – ancorché non ne sia prescritto un numero determinato o una percentuale minima – con la conseguenza che la sua violazione comporterebbe l’automatica ricusazione della lista, ai sensi dell’art. 30, primo comma, lettera e), del d.P.R. n. 570 del 1960. Ciò sarebbe in linea, sia con il dato letterale del primo periodo del citato comma 3-bis, ove è usata la formula imperativa «è assicurata», sia con la ratio della legge n. 215 del 2012 di garantire anche per i comuni minori la parità di genere nelle candidature.

Nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, dunque, l’applicazione dei «canoni» di ragionevolezza e di proporzionalità dovrebbe condurre l’interprete – in mancanza di un’espressa prescrizione ex lege di quote, non imposta dall’art. 51 Cost. – a ritenere «imprescindibile […] la presenza di almeno un cittadino dell’altro sesso (oltre al Sindaco che non fa parte della lista)», corrispondendo ciò a una valutazione operata dal legislatore tenuto conto della «eterogeneità degli enti in virtù del numero e dell’estensione territoriale». Pur non stabilendo quote rigide, l’art. 71, comma 3-bis, introdurrebbe comunque un limite conformativo alla composizione delle liste nei piccoli comuni, il cui mancato rispetto determinerebbe l’illegittimità dell’ammissione delle liste stesse.

La natura precettiva della disposizione troverebbe conferma in altre norme sull’accesso alle cariche pubbliche, quali gli artt. 6, comma 3, e 46, comma 3, t.u. enti locali. In base alla prima gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per «garantire» (in luogo di «promuovere», come si leggeva nel testo previgente) la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonche´ degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti. La seconda prescrive che la nomina da parte del sindaco o del presidente della provincia dei membri della giunta avvenga «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».

In attuazione del principio di cui all’art. 51 Cost., pertanto, il legislatore sarebbe stato comunque tenuto a prevedere nel testo dell’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali, un numero minimo o una percentuale di candidati dell’altro sesso anche per le liste relative ai comuni con meno di 5.000 abitanti, al fine di evitare o contrastare fenomeni elusivi della parità di genere e fugare le incertezze interpretative. A fronte della censurata omissione, le parti ritengono che spetti a questa Corte identificare con efficacia erga omnes, all’esito di un bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, la soluzione più adeguata.

3.– Con atto depositato il 5 ottobre 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine per la non fondatezza delle questioni.

3.1.– L’inammissibilità deriva dal fatto che il rimettente chiede alla Corte di introdurre con sentenza una “sanzione” che può essere prevista solo dalla legge. L’intervento non potrebbe comunque avere efficacia retroattiva e di conseguenza non sarebbe applicabile nel giudizio a quo.

3.2.– Le questioni non sarebbero comunque fondate, in quanto la scelta di non prevedere, nei comuni con meno di 5.000 abitanti, quote di candidati di uno dei due generi, né sanzioni in caso di mancato rispetto della rappresentanza di entrambi i sessi tra i candidati, costituirebbe il risultato della precisa volontà del legislatore, desumibile dai lavori preparatori, di tenere conto della difficoltà di garantire tale rappresentanza nei comuni più piccoli. Lo stesso legislatore avrebbe quindi ragionevolmente valutato le caratteristiche socio-demografiche dei comuni italiani e conciliato il principio della parità di genere con i principi – non inferiori per rango costituzionale – della partecipazione democratica e del pieno collegamento dei rappresentanti politici con il territorio. Né il rimettente avrebbe allegato elementi idonei a smentire il dato demografico emergente dai lavori preparatori della legge n. 215 del 2012, che giustifica la diversità di regime giuridico.

Pur essendo vero, inoltre, che la normativa elettorale non impone di candidare residenti nel comune, la possibile carenza di candidati dell’uno o dell’altro sesso nelle comunità di piccole dimensioni potrebbe condurre, in presenza di un vincolo numerico o per quote, a candidature slegate o poco legate al territorio dell’ente amministrato, con un rischio di deficit di rappresentatività delle liste. Soprattutto nelle piccole comunità, dunque, il bilanciamento degli interessi in gioco deve tradursi in un meccanismo di maggiore flessibilità, che esprima un punto di equilibrio tra l’accesso alle cariche elettive nel rispetto della parità di genere e la maggiore rappresentatività possibile dei territori.

L’interveniente osserva poi che le donne rappresentano attualmente circa il trenta per cento dei componenti dei consigli comunali nei comuni con meno di 5.000 abitanti, avvicinandosi alla quota di un terzo prevista per i comuni con popolazione superiore, a dimostrazione dell’effettività del principio della parità di genere anche in mancanza di una specifica sanzione.

La violazione dell’obbligo di rappresentanza di entrambi i generi nelle liste non sarebbe comunque priva di sanzione, operando la sanzione politica, consistente nella possibilità per gli elettori di non premiare le liste che non si conformano al principio di parità di genere.

3.3.– Secondo l’Avvocatura, in definitiva, le questioni sollevate sarebbero astratte e la loro soluzione implicherebbe un sindacato inammissibilmente invasivo della discrezionalità del legislatore.

4.– A. F. e L. D.L. hanno depositato il 27 dicembre 2021 una memoria illustrativa, in cui in particolare replicano all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’interveniente, osservando che «la sanzione è implicitamente connaturata all’intento del legislatore di assicurare la presenza di entrambi i sessi nella composizione della/e lista/e indipendentemente dal numero degli abitanti» e che la rimessione alla Corte mira a «cristallizzare nel dettato di legge (con effetto ex tunc proprio delle sentenze di incostituzionalità) il numero minimo necessario di candidati dell’altro genere (recte: almeno uno) per i piccoli comuni». Nel merito vengono ribaditi gli argomenti svolti nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato, sezione terza, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), e dell’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali).

La prima disposizione censurata disciplina l’elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti. Il suo comma 3-bis, inserito dall’art. 2, comma 1, lettera c), numero 1), della legge 23 novembre 2012, n. 215 (Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni), prevede quanto segue: «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Nelle medesime liste, nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi». Essa è censurata «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti».

Oggetto della seconda disposizione censurata sono i compiti spettanti alla «Commissione elettorale mandamentale» dopo la presentazione delle candidature nei comuni sino a 10.000 abitanti, nell’ambito del procedimento preparatorio alle elezioni dei consigli comunali. In particolare, l’art. 30 del d.P.R. n. 570 del 1960, al primo comma, prevede che, entro il giorno successivo a quello della presentazione delle candidature, tale Commissione: «d-bis) verifica che nelle liste dei candidati, per le elezioni nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, sia rispettata la previsione contenuta nel comma 3-bis dell’articolo 71 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. In caso contrario, riduce la lista cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati, procedendo in tal caso dall’ultimo della lista. La riduzione della lista non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima» (lettera inserita dall’art. 4, comma 1, della legge 15 ottobre 1993, n. 415, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81, sull’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale» e successivamente così sostituita dall’art. 2, comma 2, lettera a, numero 1, della legge n. 215 del 2012); «e) ricusa le liste che contengono un numero di candidati inferiore al minimo prescritto e riduce quelle che contengono un numero di candidati superiore al massimo consentito, cancellando gli ultimi nomi in modo da assicurare il rispetto della previsione contenuta nel comma 3-bis dell’articolo 71 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267» (lettera così modificata dall’art. 2, comma 2, lettera a, numero 2, della legge n. 215 del 2012).

Questa seconda disposizione è censurata, simmetricamente alla prima, «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista” […] le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti».

Le questioni sono sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 51, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000.

1.1.– L’incidente di costituzionalità è sorto nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania che ha respinto il ricorso proposto da A. F. e L. D. L. nella qualità di elettori e componenti di una lista elettorale partecipante alle elezioni tenutesi il 21 e 22 settembre 2020 per il rinnovo del consiglio comunale di (omissis), comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

Nel giudizio di primo grado, i ricorrenti, sull’assunto che la sottocommissione elettorale circondariale, decidendo il loro reclamo, avrebbe illegittimamente negato la ricusazione dell’unica lista concorrente, in quanto composta da sette candidati tutti di sesso maschile, avevano chiesto l’annullamento dei provvedimenti di convalida e di proclamazione degli eletti, la rettifica dei risultati elettorali e l’assegnazione agli stessi ricorrenti, quali secondo e terzo dei non eletti, dei seggi ottenuti da tale lista concorrente.

1.2.– Secondo il rimettente, pur godendo il legislatore di ampia discrezionalità nella materia elettorale, la scelta compiuta con le disposizioni in esame supererebbe i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, giacché essa sarebbe incoerente con le finalità proprie della normativa cui pertiene e opererebbe un non corretto bilanciamento degli interessi in gioco, non idoneo a promuovere la parità di genere nell’accesso alle cariche elettive. Né la scelta legislativa potrebbe trovare giustificazione nella presunta difficoltà di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, posto che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nel comune interessato dalla competizione elettorale e che, comunque, eventuali difficoltà a formare liste derivanti dalla «carenza demografica» prescinderebbero dal genere dei candidati.

Di conseguenza, sarebbe violato innanzitutto l’art. 51, primo comma, Cost., che impegna il legislatore a predisporre misure dirette a colmare le diseguaglianze di genere nella partecipazione politica, anche al fine di assicurare pieno riconoscimento a un diritto politico fondamentale con i caratteri dell’inviolabilità ai sensi dell’art. 2 Cost.

Sarebbe violato inoltre l’art. 3, secondo comma, Cost., sia per la già indicata irragionevolezza e la sproporzione della scelta legislativa, sia perché solo per le elezioni comunali permarrebbe una differenziazione di regime in ragione delle diverse dimensioni dei comuni, tale per cui in quelli con meno di 5.000 abitanti opererebbe unicamente il vincolo di una generica «rappresentanza di entrambi i sessi», e ciò, nonostante la rilevante consistenza complessiva e l’importanza dei comuni di piccole dimensioni. L’assenza poi di un meccanismo sanzionatorio della mancata rappresentanza di uno dei due sessi impedirebbe l’effettiva realizzazione della parità di genere in contrasto con la ratio della stessa legge n. 215 del 2012, funzionale a sua volta a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la piena partecipazione di tutti all’organizzazione politica.

Oggetto di censura, più precisamente, non sarebbe la scelta di differenziare a seconda delle dimensioni dei comuni, ma quella di non avere dato concretezza al principio di parità di genere. Pur ragionevolmente predisponendo regimi di tutela differenziati a seconda delle dimensioni del comune, il legislatore avrebbe escluso del tutto dall’ambito di applicazione del principio di parità milioni di cittadine «per il solo fatto di vivere in aree urbane a bassa densità demografica», e ciò irragionevolmente, stante che nessuna evidenza statistica, sociologica o scientifica dimostrerebbe l’inutilità di un intervento di riequilibrio delle rappresentanze di genere in tali realtà.

Considerazioni analoghe varrebbero, secondo il giudice a quo, a sostegno della lamentata violazione del divieto di discriminazione contenuto nell’art. 14 CEDU e nell’art. 1 Prot. addiz. n. 12 CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non sussisterebbe infatti alcuna giustificazione del diverso trattamento riservato ai comuni con meno di 5.000 abitanti rispetto a quelli con popolazione superiore, per i quali la rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali è effettivamente assicurata.

2.– Prima di esaminare le questioni, e anche al fine di individuarne con esattezza oggetto e petitum, va sinteticamente descritto il quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.

La citata legge n. 215 del 2012 – diretta, come dice il suo titolo, a promuovere il riequilibrio di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali – investe, per quanto qui segnatamente rileva, la disciplina delle elezioni dei consigli comunali, cui è dedicato il suo art. 2, commi 1, lettere c) e d), e 2, lettere a) e b). Il legislatore ha utilizzato la tecnica della novellazione del t.u. enti locali e del d.P.R. n. 570 del 1960, incidendo, in particolare, sulle seguenti disposizioni: artt. 71 e 73 t.u. enti locali, sulle elezioni nei comuni con popolazione rispettivamente sino a 15.000 abitanti e superiore a 15.000 abitanti; artt. 30 e 33 del d.P.R. n. 570 del 1960, sulla presentazione delle candidature nei comuni con popolazione rispettivamente sino a 10.000 abitanti e superiore a 10.000 abitanti.

Il mancato coordinamento tra i citati testi legislativi determina un’implicita modifica dell’ambito applicativo degli artt. 30 e 33 del d.P.R. n. 570 del 1960. Nella versione novellata, queste disposizioni contengono infatti rinvii agli artt. 71 e 73 t.u. enti locali (relativi, come visto, ai comuni con popolazione rispettivamente sino a 15.000 e superiore a 15.000 abitanti), pur rimanendo inserite nella disciplina relativa ai comuni con popolazione rispettivamente sino a 10.000 e superiore a 10.000 abitanti (sezioni II e III del capo IV del titolo II del d.P.R. n. 570 del 1960).

Il sistema è disegnato graduando i vincoli – e le sanzioni per la loro violazione – a seconda delle dimensioni dei comuni, in modo tale che il rigore delle regole si attenua con il diminuire del numero di abitanti del comune, in ragione di tre fasce di comuni, quelli con più di 15.000 abitanti, quelli con popolazione fra 5.000 e 15.000 e quelli con meno di 5.000 abitanti. I meccanismi attraverso cui viene promossa la parità di genere nell’accesso alle cariche elettive comunali sono, oltre all’obbligo generale di assicurare la rappresentanza di entrambi i sessi su cui ci si soffermerà di seguito, la doppia preferenza di genere e la quota di lista.

La doppia preferenza di genere è prevista per i comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti e per quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti (rispettivamente art. 71, comma 5, e art. 73, comma 3, t.u. enti locali, come novellato nel 2012). In questi comuni l’elettore può esprimere fino a due preferenze, ma esse devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda.

Per gli stessi comuni è inoltre previsto il vincolo della quota di lista (rispettivamente art. 71, comma 3-bis, secondo periodo, e art. 73, comma 1, ultimo periodo, t.u. enti locali novellato), in base al quale nessuno dei due sessi può essere rappresentato nelle liste di candidati in misura superiore a due terzi, con arrotondamento all’unita` superiore qualora il sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi.

Il rispetto di questo secondo vincolo è presidiato nel d.P.R. n. 570 del 1960, anch’esso come da ultimo novellato dalla legge n. 215 del 2012, ove si prevede che la commissione elettorale chiamata a verificare liste e candidature riduca le liste cancellando, a partire dall’ultimo, i nominativi dei candidati eccedenti la quota di due terzi per il genere di appartenenza, sino a ripristinare detta quota (art. 30, primo comma, lettera d-bis, per i comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, e art. 33, primo comma, lettera d-bis per quelli con popolazione superiore).

Le conseguenze dell’intervento di riduzione variano a seconda della dimensione del comune, qualora, all’esito della cancellazione delle candidature eccedenti, la lista presenti un numero di candidati inferiore a quello minimo prescritto per l’ammissione alle elezioni (pari, rispettivamente, ai tre quarti e ai due terzi dei consiglieri da eleggere, in base agli artt. 71, comma 3, e 73, comma 1, t.u. enti locali). Nel caso dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, è stabilito che la commissione elettorale «ricusa» la lista (art. 33, primo comma, lettera d-bis del d.P.R. n. 570 del 1960), mentre nei comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti «[l]a riduzione della lista non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima» (art. 30, primo comma, lettera d-bis d.P.R. n. 570 del 1960). Ne risulta, dunque, una garanzia della pari opportunità nell’accesso alla carica di consigliere comunale nei comuni più grandi, con più di 15.000 abitanti, per i quali opera il rimedio estremo della ricusazione della lista non rispettosa delle quote; mentre è meno forte nei comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, per i quali la violazione del vincolo della quota è sanzionata con la cancellazione dei nominativi eccedenti, ma senza che possa essere violata la soglia del numero minimo dei candidati e senza che dunque la lista possa essere esclusa per questo dalla competizione elettorale.

Per i comuni con meno di 5.000 abitanti non è prevista né la doppia preferenza di genere, né la quota di lista, sicché per essi l’unica norma di promozione del riequilibrio risulta essere quella generale, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi», contenuta nell’art. 71, comma 3-bis, primo periodo, t.u. enti locali (introdotta dall’art. 2, comma 1, lettera c, numero 1, della legge n. 215 del 2012), che la rubrica della disposizione («Elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti»), consente di riferire senz’altro a tutti i comuni, e quindi anche ai più piccoli. A presidio di tale obbligo non è tuttavia prevista alcuna sanzione, a differenza di quanto avviene invece, come visto, per gli altri due ricordati meccanismi di promozione della parità di accesso alle cariche.

3.– Alla luce del descritto quadro normativo occorre soffermarsi innanzitutto sull’interpretazione delle disposizioni censurate offerta dal rimettente, che, nel suo percorso argomentativo, non distingue sempre con nettezza l’ipotesi – paventata in alcuni passaggi – della radicale assenza di un obbligo di rappresentanza nelle liste di entrambi i generi nei comuni con meno di 5.000 abitanti, dall’ipotesi dell’ineffettività dell’obbligo stesso, conseguente alla mancata previsione di meccanismi sanzionatori della sua violazione.

Tant’è che lo stesso Consiglio di Stato censura sia la previsione del primo periodo dell’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi», nella parte in cui non sarebbe riferibile a detti comuni, sia le previsioni dell’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960 nella parte in cui, sempre per questi stessi comuni, non colpiscono con il rimedio dell’esclusione le liste che non rispettano le regole sulla rappresentanza.

Al riguardo, occorre tuttavia osservare che la prima delle due citate disposizioni non può che essere interpretata, alla luce della sua lettera e della stessa rubrica dell’articolo cui pertiene («Elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti»), nel senso di operare per tutti i comuni con meno di 15.000 abitanti, e quindi anche per quelli con popolazione inferiore a 5.000, per i quali, dunque, si devono ritenere non ammesse liste di candidati appartenenti a un solo sesso. Il fatto che la seconda parte della disposizione prescriva la riserva di quota solo per i comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti non preclude tale conclusione, come non la preclude l’assenza di un rimedio per il mancato rispetto della necessaria rappresentanza di genere.

Tale soluzione interpretativa, del resto, non è esclusa nemmeno dall’ordinanza di rimessione, in particolare dove – al di là del tenore letterale del suo petitum – essa afferma che la rubrica dell’art. 71 t.u. enti locali «consente con certezza di estendere la sua efficacia ai Comuni che presentino tale densità anagrafica», e lamenta di conseguenza la mancata previsione di una misura sanzionatoria della violazione, a carico delle liste che non assicurino la prescritta rappresentanza di entrambi i generi.

Sicché si può ritenere che, in termini più aderenti al dettato normativo, il rimettente si dolga, in realtà, del carattere di mera affermazione di principio del vincolo della necessaria presenza di candidati di entrambi i sessi, e della mancanza di una misura, anche minima, idonea ad assicurarne l’effettività.

Così ricostruite, le censure si devono quindi ritenere riferite al combinato disposto degli artt. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960, nella parte in cui non è prevista l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

Che, in effetti, la normativa in esame non preveda sanzioni per l’inosservanza del vincolo della necessaria rappresentanza dei due sessi nelle liste presentate nei comuni con meno di 5.000 abitanti è circostanza indiscutibile. Dalla sua lettura risulta, anzi, che la violazione di tale vincolo non è assistita da sanzioni specifiche nemmeno per gli altri comuni, quelli cioè con più di 5.000 abitanti, per i quali i rimedi previsti sono quelli che riguardano la violazione della regola sulla seconda preferenza – di cui è previsto l’annullamento se assegnata a un candidato dello stesso sesso della prima – e quelli che colpiscono il mancato rispetto della riserva di quota – consistenti nella riduzione delle liste (art. 30, primo comma lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960), nonché, per i comuni più grandi, nell’ulteriore misura dell’esclusione della lista quando la riduzione comporti la violazione della soglia minima di candidati (art. 33, primo comma, lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Né soccorre, ai fini che interessano, l’art. 30, primo comma, lettera e), del d.P.R. n. 570 del 1960, invocato dalle parti appellanti nel processo principale e costituite in giudizio – sostanzialmente a sostegno dell’irrilevanza della questione, che sarebbe superabile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata del tessuto normativo – per sostenere che la composizione delle liste con candidati di un solo sesso, contrastando con l’art. 71, comma 3-bis), primo periodo, t.u. enti locali, comporterebbe la ricusazione disposta dal citato art. 30, primo comma, lettera e). Tale misura, infatti, è prevista per la diversa ipotesi della presentazione di liste che contengono un numero di candidati inferiore al minimo prescritto (pari, come detto, ai tre quarti dei consiglieri da eleggere: art. 71, comma 3, t.u. enti locali) e non è estendibile oltre tale caso.

È vero che lo stesso art. 30, primo comma, lettera e), nel testo modificato dall’art. 2 comma 2, lettera a), numero 2), della legge n. 215 del 2012, contiene un richiamo all’art. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali, ma esso è destinato solo a regolare l’ipotesi, speculare alla precedente, della presentazione di liste eccedenti il numero massimo consentito (pari al numero dei consiglieri comunali da eleggere: art. 71, comma 3, t.u. enti locali). Per queste è prevista la riduzione sino al ripristino del numero massimo in modo che sia assicurato anche il rispetto della quota di genere, con implicito ma inequivoco riferimento ai comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti.

D’altra parte, anche per questi ultimi comuni si può dubitare dell’effettività della misura scelta dal legislatore per promuovere il riequilibrio della rappresentanza di genere. Non solo, infatti, il mancato rispetto della quota non comporta l’esclusione della lista, ma nemmeno il meccanismo della riduzione, nei limiti fissati dall’art. 30, primo comma, lettera d-bis), del d.P.R. n. 570 del 1960, elide il rischio di possibili soluzioni interamente elusive. L’impossibilità di ricusare la lista, se la sua riduzione determinasse «un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima», consentirebbe infatti di presentare liste “minimali” con candidati di un solo sesso, facendo coincidere il numero massimo dei candidati di un sesso con il numero minimo dei candidati in lista.

L’unico rimedio effettivo nel caso di liste di candidati di un solo sesso è quello riservato, come visto, ai comuni con più di 15.000 abitanti, per i quali è stabilita la ricusazione (e dunque l’esclusione) delle liste che, a seguito della riduzione per inosservanza delle quote, scendano al di sotto del numero minimo di candidati (art. 33, primo comma, lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960), ipotesi, questa, che comprende anche quella “limite”, in cui l’impossibilità di rispettare la quota sia dovuta al fatto che la lista è formata da candidati di un solo sesso.

4.– In via preliminare vanno respinte le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Secondo l’Avvocatura le questioni sarebbero inammissibili in quanto con esse si chiede a questa Corte di introdurre con sentenza una sanzione che solo la legge è autorizzata a disciplinare. La stessa sanzione non potrebbe inoltre avere efficacia retroattiva, con la conseguenza che non sarebbe applicabile nel giudizio a quo.

Entrambe le eccezioni si fondano sul presupposto che l’intervento additivo auspicato dal rimettente comporti l’introduzione di una vera e propria sanzione, in quanto tale soggetta ai principi di riserva di legge e di irretroattività fissati all’art. 25 Cost. Ma si tratta, all’evidenza, di un presupposto erroneo, posto che il rimedio dell’esclusione della lista dalla competizione elettorale, che il rimettente chiede venga introdotto a garanzia dell’effettiva rappresentanza nella lista di entrambi i sessi nei comuni con meno di 5.000 abitanti, non può essere configurato altrimenti che come conseguenza della mancanza di un requisito di ammissibilità della lista; e considerato altresì che la qualificazione della misura, come lato sensu “sanzionatoria” del mancato rispetto di una prescrizione posta a pena di ammissibilità, ha un significato affatto diverso da quello che ha con riferimento alle sanzioni penali o comunque di natura punitiva in senso stretto, cui si riferiscono le garanzie dell’art. 25, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2019, n. 223 e n. 121 del 2018) e alla cui categoria la misura in esame non può in alcun modo essere ricondotta.

5.– Nel merito, le censure sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost. possono essere trattate insieme, risolvendosi in una unitaria censura di violazione dell’obbligo costituzionale di promozione, medianti appositi provvedimenti, delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive, nonché di irragionevolezza e di non proporzionalità della scelta espressa nelle disposizioni denunciate.

Il rimettente lamenta, in sintesi, che le disposizioni censurate, non prevedendo una sanzione per la violazione del vincolo della necessaria rappresentanza dei due sessi nelle liste elettorali nei comuni con meno di 5.000 abitanti, si porrebbero in contrasto con la ratio della normativa che le contiene, che è quella di promuovere l’effettiva parità di genere nell’accesso alle cariche elettive comunali in attuazione di quanto prescritto dall’art. 51, primo comma, Cost. Le norme stesse violerebbero, dunque, sia quest’ultima previsione costituzionale, sia il principio di uguaglianza sostanziale, di cui la prima è espressione per quanto attiene all’accesso alle cariche elettive. Esse realizzerebbero, inoltre, un non corretto bilanciamento degli interessi in campo, sacrificando la finalità propria del riequilibrio della rappresentanza ben oltre quanto strettamente necessario al fine di proteggere eventuali altri interessi rilevanti.

6.– Le questioni sono fondate.

6.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella disciplina della materia elettorale. In essa si esprime infatti con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa, che è pertanto censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 35 del 2017, n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996 e n. 438 del 1993; ordinanza n. 260 del 2002).

Né si può ritenere che i margini di sindacato di questa Corte si allarghino apprezzabilmente per il fatto che esso investa regole elettorali – segnatamente riguardanti la presentazione delle liste dei candidati – dirette a promuovere il riequilibrio della rappresentanza di genere, in attuazione del citato art. 51, primo comma, Cost, come modificato con la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1 (Modifica dell’art. 51 della Costituzione). Anche nella scelta dei mezzi per attuare il disegno costituzionale di un’effettiva parità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive, va infatti riconosciuta al legislatore un’ampia discrezionalità in linea con l’orientamento espresso da questa Corte secondo cui tali mezzi «possono essere di diverso tipo» (sentenza n. 4 del 2010).

Di conseguenza, l’azione del legislatore che – corrispondendo al preciso impegno cui lo sollecita la Costituzione – si accinga a promuovere la parità di accesso alle cariche elettive, intervenendo sulla disciplina della presentazione delle liste elettorali, può assumere forme alquanto diverse. E così è, in concreto, nella normativa statale e regionale emanata a tale fine, che impiega strumenti vari e differenziati, quali, fra gli altri: il divieto di liste composte da candidati di un solo sesso; il rispetto di quote di lista variamente congegnate; la previsione di regole di garanzia nelle preferenze. Inoltre, le varie prescrizioni sono accompagnate da strumenti a loro volta vari, a presidio dell’effettività delle diverse misure, quali: l’esclusione o ricusazione della lista, in taluni casi preceduta dall’invito rivolto ai proponenti di rivederla entro un termine determinato; l’invalidità della preferenza non rispettosa del vincolo di genere; misure pecuniarie sanzionatorie delle violazioni per le liste che non si conformino alle prescrizioni.

Costituisce, del resto, espressione di tale discrezionalità la stessa scelta, operata nella normativa in esame, di un sistema di misure di promozione della parità di accesso alle cariche elettive nei comuni graduato in ragione delle dimensioni di questi ultimi.

Nemmeno la pur ampia descritta discrezionalità del legislatore in materia sfugge, tuttavia, ai limiti generali del rispetto dei canoni di non manifesta irragionevolezza e di necessaria coerenza rispetto alle finalità perseguite, cui si deve aggiungere, per quanto qui segnatamente interessa, lo specifico limite costituito dall’obbligo di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», al fine di garantire a tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità di accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (art. 51, primo comma, Cost.). Con la conseguenza che una disciplina elettorale che omettesse di contemplare adeguate misure di promozione, o che ne escludesse l’applicazione a determinate competizioni elettorali o a determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta lesiva della citata previsione costituzionale.

6.2.– La normativa in esame non esclude, come visto, i comuni più piccoli dall’obbligo della presenza nelle liste elettorali di candidati di entrambi i sessi, cosicché non si può negare che anche per essi opera una, sia pur minima, misura di garanzia delle pari opportunità di accesso alle cariche.

Si tratta di una misura minima di «non discriminazione», come già sottolineato da questa Corte, che nella sentenza n. 49 del 2003 – resa su una disposizione regionale che imponeva, nelle liste per l’elezione del consiglio regionale, la presenza di candidati di entrambi i sessi a pena di invalidità delle liste medesime – ha affermato che «il vincolo imposto, per la sua portata oggettiva, non appare nemmeno tale da incidere propriamente, in modo significativo, sulla realizzazione dell’obiettivo di un riequilibrio nella composizione per sesso della rappresentanza. Infatti, esso si esaurisce nell’impedire che, nel momento in cui si esplicano le libere scelte di ciascuno dei partiti e dei gruppi in vista della formazione delle liste, si attui una discriminazione sfavorevole ad uno dei due sessi, attraverso la totale esclusione di candidati ad esso appartenenti. Le “condizioni di parità” fra i sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere, sono qui imposte nella misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi».

Sennonché, nella normativa qui scrutinata, la stessa pur minimale misura di promozione non risulta assistita – a differenza di quanto accadeva nella normativa regionale appena citata – da alcun rimedio per il caso di violazione dell’obbligo: ciò che rende la misura stessa del tutto ineffettiva nella protezione dell’interesse che mira a garantire e, in quanto tale, inadeguata a corrispondere al vincolo costituzionale dell’art. 51, primo comma, Cost.

6.3.– La riscontrata violazione, ad opera delle disposizioni censurate, del vincolo discendente dall’art. 51, primo comma, Cost. non può essere superata nemmeno facendo leva sulla necessità di contemperare l’obiettivo della promozione delle pari opportunità nella vicenda elettorale con altri interessi costituzionalmente rilevanti, quale in particolare quello della rappresentatività. Interesse, che, come paventa l’Avvocatura, sarebbe messo in pericolo dalla difficoltà di reperire candidati in numero sufficiente nelle realtà demografiche più piccole.

Si può osservare, infatti, che l’obbligo di liste rappresentative dei due sessi, operante per i comuni più piccoli, è assolto con la semplice presenza di un solo candidato di sesso diverso dagli altri, e che, d’altra parte, non diverse obiettive difficoltà di reclutamento di candidati – dell’uno o dell’altro sesso indifferentemente – si presentano negli stessi comuni semplicemente per raggiungere il numero minimo prescritto di candidati della lista, ciò che nondimeno non ha dissuaso il legislatore dal prescrivere comunque l’anzidetto numero minimo (almeno pari ai tre quarti del numero di consiglieri da eleggere) e, soprattutto, dal sanzionare il mancato rispetto di tale condizione con la ricusazione della lista (art. 30, primo comma, lettera e, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Anche sotto questo profilo, dunque, la soluzione adottata dal legislatore per quel che attiene alla promozione delle pari opportunità nei comuni più piccoli appare – oltre che, come sottolineato, direttamente in contrasto con quanto previsto all’art. 51, primo comma, Cost. – frutto di un cattivo uso della sua discrezionalità, manifestamente irragionevole e fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento fra comuni nonché fra aspiranti candidati (o candidate) nei rispettivi comuni, ai quali non sono garantite, nei comuni più piccoli, le stesse opportunità di accesso alle cariche elettive che la Costituzione intende assicurare a tutti in funzione del riequilibrio della rappresentanza di genere negli organi elettivi.

Le disposizioni contestate risultano poi tanto più censurabili, se si considera la loro palese incoerenza con la ratio della legge n. 215 del 2012, che le ha introdotte al dichiarato fine di «promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali», come recita il suo titolo.

Alla luce di queste considerazioni, si deve concludere che sussiste la violazione degli artt. 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost., sotto tutti i profili prospettati dal rimettente.

7.– Riscontrato il vulnus, va esaminata l’ammissibilità dell’intervento richiesto dallo stesso rimettente per porvi rimedio, individuato nell’estensione al caso di specie della sanzione dell’esclusione della lista, prevista per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti dall’art. 33, primo comma, lettera d-bis), del d.P.R. n. 570 del 1960. Una soluzione che non può dirsi costituzionalmente obbligata, considerata la varietà dei mezzi a disposizione del legislatore per promuovere la parità di genere e, in particolare, per sanzionare la violazione degli obblighi posti a tale fine, e la cui praticabilità va dunque verificata.

7.1.– Al riguardo soccorre la ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte secondo cui, di fronte alla violazione di diritti fondamentali – e questo è certamente il caso per quanto in precedenza esposto – non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore.

Secondo tale orientamento, «la “ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore” […]. In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso “precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” […]» (sentenza n. 63 del 2021; nello stesso senso, da ultimo, sentenza n. 28 del 2022).

7.2.– In applicazione di questi criteri, la soluzione indicata dal rimettente risulta costituzionalmente adeguata e merita di essere accolta.

Per un verso, la sanzione dell’esclusione della lista in caso di violazione delle condizioni prescritte dalla legge per la sua ammissibilità è già presente nella normativa in esame. In un primo senso, infatti, si tratta segnatamente del rimedio che – diretto a sanzionare in via generale l’ipotesi in cui la cancellazione dei candidati eccedenti la quota di legge comporti la violazione della soglia minima di candidati prescritta per l’ammissibilità della lista – colpisce, nei comuni con più di 15.000 abitanti, la stessa violazione alla quale si intende estenderlo, ossia il caso estremo della lista formata da candidati di un solo sesso. È ovvio, invero, che, in tale caso estremo, la riduzione della lista fino al numero minimo di candidati non potrebbe comunque assicurare il rispetto della quota. In un secondo senso, la medesima sanzione ricorre anche nella disciplina della presentazione delle liste nei comuni con meno di 5.000 abitanti, essendo prevista anche per essi, come detto, nel caso di liste con un numero di candidati inferiore al minimo prescritto (art. 30, primo comma, lettera e, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Per altro verso, da un punto di vista più generale, la soluzione prospettata si inserisce nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore: essa non altera il complessivo sistema delle misure di promozione delineato dalla legge n. 215 del 2012, che conserva comunque il carattere di gradualità in ragione della dimensione dei comuni, e conserva per quelli piccoli il solo obbligo della rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste, limitandosi a garantirne l’effettività con l’introduzione di una sanzione per il caso di sua violazione.

Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione, purché rispettosa dei principi costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 222 del 2018), nonché l’armonizzazione del sistema, anche considerando il caso dei comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, nei quali la riduzione della lista non può andare oltre il numero minimo di candidati prescritto.

8.– Si deve dunque dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 71, comma 3-bis, t.u. enti locali e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960, nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

Resta assorbita l’ulteriore questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 Prot. addiz. n. 12 CEDU.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.