Consiglio di Stato, sez. VII, ordinanza 31 gennaio 2024, n. 995

 

Professioni e mestieri – Tributaristi – Omessa equiparazione ai professionisti abilitati al rilascio del visto di conformità fiscale – Art. 35, comma 3, d.lgs. n. 241 del 1197 – Questione di legittimità costituzionale – Non manifesta infondatezza – Rimessione alla corte costituzionale – Testo ordinanza

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, d.lgs. n. 241 del 1997 in relazione agli artt. 3, 41 e 117, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui consente solo ai professionisti iscritti in appositi albi professionali di apporre il visto di conformità fiscale nelle dichiarazioni dei redditi escludendo i tributaristi che, sono iscritti in ordini e collegi, operando come consulenti fiscali. Pertanto, la predetta questione viene rimessa alla Corte Costituzionale.

Pubblicato il 31/01/2024

  1. 00995/2024 REG.PROV.COLL.
  2. 01804/2023 REG.RIC.           

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 1804 del 2023, proposto da

 

Associazione Nazionale Tributaristi Lapet in persona del legale rappresentante pro tempore, e Mariateresa Nesca, rappresentati e difesi dagli avvocati Giovanni Cinque e Antonio Martini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Antonio Martini in Roma, corso Trieste 109;

 

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia – sede di Bari (sezione seconda) n. 1192/2022

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Agenzia delle Entrate;

Viste le memorie e tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 dicembre 2023 il consigliere Fabio Franconiero e udito per la parte appellante l’avvocato Martini, sull’istanza di passaggio in decisione dell’Agenzia delle Entrate;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

Premesso che:

– gli appellanti indicati in epigrafe agiscono nel presente giudizio per l’annullamento dei provvedimenti dell’Agenzia delle entrate con cui (o sulla cui base) è stato negato alla dottoressa Mariateresa Nesca, di professione tributarista, iscritta all’Associazione nazionale tributaristi Lapet, l’abilitazione al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e Iva dalla stessa inviate all’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni);

– in fatto, deve premettersi che la ricorrente Associazione nazionale tributaristi Lapet è un’associazione professionale a carattere nazionale, costituita tra coloro che esercitano la consulenza nelle materie contabili, fiscali e tributarie, senza iscrizione in albi professionali, che tra gli altri compiti svolge la vigilanza sulla attività professionale degli associati nei confronti dei terzi e della pubblica amministrazione (artt. 1 e 4 dello Statuto; doc. n. 10 prodotto unitamente al ricorso di primo grado);

– come dedotto nel ricorso di primo grado, l’associazione «conta (…) oltre 5000 iscritti sull’intero territorio nazionale» e dispone di strutture su base regionale e provinciale («20 Delegazioni regionali e 105 Sedi Provinciali»);

– oltre al riconoscimento civilistico quale persona giuridica ai sensi del DPR 10 febbraio 2000, n. 361 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto), essa è iscritta in elenchi ministeriali e aderisce ad enti rappresentativi di categoria a livello nazionale, oltre a essere rappresentata in commissioni di studio istituite a livello ministeriale;

– sempre in via di fatto, nel ricorso di primo grado è stato esposto, senza contestazioni sul punto da parte dell’Agenzia delle entrate, che quella del tributarista è una figura professionale «riconosciuta da numerose norme di legge, tra le quali il D.M. del 28.12.1990; il D.lgs.546/1992; DPR n.322/1998 e correlato D.M. del 19.4.2001; Art.1 commi 391 e 392 della Legge n.311 del 2004; art.21 della L.29/2006 che estende ai tributaristi gli obblighi antiriciclaggio ed il regolamento di cui al D.lgs. .231/2007 (art.14); la Direttiva comunitaria 2001/97/ce)»;

– secondo quanto ulteriormente dedotto, l’attività svolta professionale consiste nella tenuta della contabilità delle imprese; nell’assistenza fiscale comprensiva della compilazione delle dichiarazioni fiscali e dell’abilitazione alla trasmissione telematica delle dichiarazioni stesse; ed inoltre in tutte le altre attività riferibili ai servizi contabili, fiscali, tributari amministrativi e/o aziendali, tranne quelli riservati a professionisti iscritti in albi, ruoli od elenchi;

– il diniego impugnato in giudizio (nota della Direzione regionale per la Puglia dell’Agenzia delle entrate in data 11 febbraio 2021) si fonda appunto sull’esistenza di una riserva di legge per l’attività di rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni;

– la riserva considerata dall’amministrazione finanziaria ostativa per l’esercente la professione di tributarista è stata ricavata dal comma 3 del citato 35 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, il quale dispone che il visto di conformità è rilasciato su richiesta del contribuente dai «soggetti indicati alle lettere a) e b), del comma 3 dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, abilitati alla trasmissione telematica delle dichiarazioni»;

– a sua volta, la disposizione richiamata, e cioè l’art. 3, comma 3, del DPR del 22 luglio 1998, n. 322 (Regolamento recante modalità per la presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive e all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 3, comma 136, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), nell’elencare le categorie di «soggetti incaricati della trasmissione» delle dichiarazioni «in via telematica mediante il servizio telematico Entratel», indica alle lettere a) e b), menzionate nella norma di legge richiamante, le seguenti categorie professionali: «gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro» (lett. a); e «i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o diploma di ragioneria» (lett. b);

– il medesimo art. 3, comma 3, del DPR del 22 luglio 1998, n. 322, contempla peraltro altre categorie di soggetti abilitati all’invio in forma telematica delle dichiarazioni dei redditi, tra cui quella individuata in via residuale dalla lettera e) negli «altri incaricati individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze»:

– in attuazione di quest’ultima disposizione regolamentare, con decreto in data 19 aprile 2001 (Ampliamento delle categorie di soggetti da includere tra gli incaricati alla trasmissione telematica dei dati contenuti nelle dichiarazioni; pubblicato in Gazz. Uff., 26 aprile, n. 96) – richiamato nel ricorso di primo grado tra le norme che in tesi avrebbero riconosciuto la figura professionale del tributarista – sono stati abilitati all’invio telematico «coloro che esercitano abitualmente l’attività di consulenza fiscale»;

– il fatto che i tributaristi rientrino nella categoria di cui alla e) dell’art. 3 del D.P.R, n. 322/1998 costituisce dato pacifico non contestato tra le parti, come emerge dalle pagg. 10 e 11 del ricorso di primo grado; dalle pagg. 34 e 35 della memoria in appello della Avvocatura dello Stato e dalla sentenza di questo Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6028/2012, di seguito richiamata;

– ai fini del presente giudizio ha inoltre rilevanza l’art. 23 del decreto ministeriale 31 maggio 1999, n. 164 (Regolamento recante norme per l’assistenza fiscale resa dai Centri di assistenza fiscale per le imprese e per i dipendenti, dai sostituti d’imposta e dai professionisti ai sensi dell’articolo 40 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241), che nel disporre, al comma 1, che i professionisti «rilasciano il visto di conformità se hanno predisposto le dichiarazioni e tenuto le relative scritture contabili», pone una regola di «identità soggettiva tra il soggetto che appone [rectius, che è abilitato ad apporre] il visto di conformità e colui che predispone [rectius, che è abilitato a predisporre, presentare e trasmettere in via telematica, secondo le altre previsioni del succitato art. 3 del DPR n. 322/1998] le dichiarazioni e cura la tenuta delle scritture contabili» (memoria dell’Agenzia delle entrate), senza tuttavia consentire il reciproco, e cioè il rilascio del visto di conformità da parte del professionista che abbia presentato all’amministrazione finanziaria la dichiarazione dei redditi;

– così ricostruito il quadro normativo da cui traggono origine le questioni di costituzionalità qui sollevate, a livello amministrativo si è chiarito che il visto di conformità ha lo scopo di «garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari» e di «agevolare l’Amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza» (circolare del Ministero delle finanze del 17 giugno 1999, n. 134);

– più precisamente, in base alle definizioni enunciate nell’art. 2 del citato decreto del Ministro delle finanze in data 31 maggio 1999, n. 164, il visto di conformità si articola in un visto c.d. leggero e uno pesante;

– la distinzione corrisponde ad altrettanti livelli di certezza sulla correttezza delle dichiarazioni fiscali;

– il primo, previsto dall’art. 35, comma 2, lett. a), del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, si sostanzia nell’attestazione di conformità tra i dati esposti nella dichiarazione dei redditi e la documentazione ad essa relativa e «implica il riscontro della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti d’imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto» (così l’art. art. 2, comma 1, del citato decreto del Ministro delle finanze in data 31 maggio 1999, n. 164);

– con il secondo, previsto dall’art. 35, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, il professionista abilitato attesta la regolare tenuta della contabilità da parte del contribuente e la corrispondenza ad essa dei dati esposti nella dichiarazione dei redditi (art. 2, comma 2, del medesimo decreto ministeriale);

– tutto ciò premesso, a fondamento della loro impugnazione, respinta in primo grado dall’adito Tribunale amministrativo regionale per la Puglia – sede di Bari con la sentenza indicata in epigrafe, gli odierni appellanti sostengono che non vi sarebbe alcuna legittima ragione per opporre ai tributaristi la riserva di attività per il rilascio del visto di conformità, istituita dal citato art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, a favore dei soli soggetti indicati alle lettere a) e b) del comma 3, dell’art. 3 del DPR 22 luglio 1998, n. 322;

– nel ricorso di primo grado la contestazione così sintetizzata è stata nello specifico riferita al visto di conformità c.d. leggero, di cui si è sottolineata la natura di «controllo circa la “correttezza formale” delle dichiarazioni presentate dai contribuenti», finalizzato ad «evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili, delle imposte e delle ritenute e nel riporto delle eccedenze risultanti dalle precedenti dichiarazioni» (pag. 8 e 9 del ricorso);

– al fine di superare la pretesa ingiustificata discriminazione in danno dei tributaristi, professionisti non costituiti in un ordine, con il presente appello viene in primo luogo riproposta un’interpretazione estensiva delle categorie ammesse a rilasciare il visto di conformità, indistintamente riferita sia al visto leggero che a quello pesante;

– inoltre si prospettano al medesimo riguardo questioni di legittimità costituzionale e pregiudiziali comunitarie nei confronti del combinato disposto dei sopra citati artt. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e 3, comma 3, DPR del 22 luglio 1998, n. 322;

Considerato che:

– l’interpretazione estensiva di cui al primo ordine di censure dell’appello non è percorribile;

– lungi dal rimanere circoscritta al dato testuale, l’operazione si tradurrebbe infatti nell’integrazione del precetto normativo fissato dalla richiamata norma primaria, anche se attraverso un richiamo testuale e un rinvio puntuale ad una circoscritta previsione di regolamento;

– come emerge dalla sopra esposta ricostruzione della normativa rilevante nel presente giudizio, in base alla menzionata disposizione primaria solo i professionisti individuati attraverso il richiamo della circoscritta previsione di norma regolamentare possono quindi considerarsi abilitati al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi inviate all’amministrazione finanziaria;

– pertanto, la lesione della posizione giuridica azionata in giudizio va fatta risalire alla citata disposizione primaria e va, quindi, interamente collocata a livello legislativo;

– ciò avuto riguardo al fatto che con il richiamo da parte dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (l’art. 35 è stato aggiunto dall’art. 1 del D. Lgs. 28 dicembre 1998, n. 490), all’elenco di professionisti contenuto nell’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del DPR del 22 luglio 1998, n. 322, quest’ultima disposizione regolamentare risulta incorporata nella norma di legge richiamante (infatti, come in precedenza esposto, l’art. 3, comma 3, del citato DPR si limita a indicare chi può essere considerato soggetto incaricato della trasmissione delle dichiarazioni in via telematica mediante il servizio telematico Entratel, mentre è solo con il rinvio da parte della norma primaria ad alcuni dei soggetti di cui al comma 3 dell’art. 3 del regolamento che il legislatore ha individuato coloro che sono abilitati a rilasciare il visto di conformità);

– a conferma di quanto appena rilevato, le ragioni poste a fondamento della pretesa azionata nel presente giudizio si indirizzano alla limitazione dei soggetti abilitati ad apporre il visto di conformità rispetto alla più ampia platea dei soggetti legittimati a predisporre le dichiarazioni e ad inviare le stesse in via telematica;

– l’effetto lesivo non deriva dunque dalla norma regolamentare, che infatti abilita alla trasmissione in via telematica una tipologia di soggetti più ampia (tra cui i ricorrenti professionisti tributaristi), ma dalla norma primaria, che restringe i soggetti abilitati ad apporre il visto di conformità ai soggetti di cui alle sole lett. a) e b) del citato art. 3, comma 3, del DPR n. 322/1998;

– inoltre, poiché il disposto della norma primaria con il rinvio in essa contenuto, non interpretabile estensivamente come in precedenza esposto, costituisce l’unico fondamento del diniego di abilitazione al rilascio del visto di conformità impugnato nel presente giudizio, le questioni di legittimità costituzionale riproposte con l’appello assumono in esso rilevanza, ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale);

– la pretesa azionata nel presente giudizio può infatti trovare riconoscimento solo attraverso una declaratoria di incostituzionalità della norma primaria contenente il precetto normativo che preclude ai ricorrenti il rilascio del visto di conformità, e cioè l’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nella parte in cui abilita al rilascio del visto di conformità i soli professionisti indicati nelle lett. a) e b) del comma 3 dell’art. 3, del DPR del 22 luglio 1998, n. 322, e non anche gli altri soggetti indicati dallo stesso comma 3 e, in particolare, in quelli di cui alla lett. e), tra cui rientrano gli odierni ricorrenti;

– delle questioni di legittimità prospettate appaiono non manifestamente infondate quelle poste con riguardo al principio di ragionevolezza e non discriminazione ex art. 3 della Costituzione; quelle relative al principio di libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 della Costituzione; e quelle di diritto euro-unitario riferite al principio di libera prestazione di servizi all’interno del mercato unico, il quale va tuttavia ricondotto a parametri normativi interposti (e di seguito trattati) rispetto all’art. 117, comma 1, della Costituzione, per essere anch’esso devoluto al sindacato di costituzionalità della Corte costituzionale;

– sotto il profilo della ragionevolezza e della non discriminazione, deve premettersi che l’incontestato rilievo pubblicistico del visto di conformità apposto sulle dichiarazioni dei redditi inviate all’amministrazione finanziaria, correlato all’attività di controllo di competenza di quest’ultima, esige che l’individuazione delle figure professionali abilitate al relativo rilascio risponda a ragioni di affidabilità e di competenza;

– ciò precisato, dal secondo punto vista non emerge una plausibile giustificazione per la quale i tributaristi possano legittimamente essere esclusi dal novero dei professionisti abilitati al visto di conformità: in primis quello c.d. leggero, che come in precedenza esposto consiste in un controllo di carattere formale sulla corrispondenza della documentazione utilizzata per le dichiarazioni fiscali con i dati in essa esposto;

– peraltro anche quello “pesante”, che nel suo estendersi all’ulteriore profilo di ordine sostanziale relativo ai dati contenuti nelle scritture contabili dell’impresa contribuente afferisce comunque all’attività professionale liberalizzata di consulenza e assistenza fiscale – secondo le incontroverse deduzioni delle parti – che il tributarista è quindi abilitato a svolgere, fino alla predisposizione e all’invio all’amministrazione finanziaria le dichiarazioni dei redditi e Iva;

– con riguardo al distinto profilo dell’affidabilità insito nel rilascio del visto di conformità sulle medesime dichiarazioni, necessario per la semplificazione dell’attività di controllo e di liquidazione di competenza dell’amministrazione finanziaria, l’unica ragione ostativa da questa addotta, ed emergente dal tenore complessivo delle disposizioni normative censurate in questo giudizio, è riferibile al principio di preferenza per le professioni c.d. ordinistiche, posto anche dalla sentenza di primo grado a fondamento del rigetto del ricorso;

– in questa prospettiva, l’organizzazione della categoria professionale in un ente esponenziale, ordine o collegio, istituito per legge, ed in base ad essa titolare di alcuni poteri di carattere pubblicistico sui relativi appartenenti, tra cui quello di fare rispettare la deontologia richiesta per l’esercizio dell’attività, costituirebbe l’elemento ragionevolmente fondante la riserva di attività istituita dall’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, attraverso il richiamo all’elenco di cui al più volte citato art. 3, comma 3, lett. a) e b), del DPR 22 luglio 1998, n. 322;

– l’argomento si espone nondimeno a rilievi critici sul piano della ragionevolezza e della non discriminazione, in relazione all’evoluzione dell’ordinamento giuridico, che con specifico riguardo alle professioni non organizzate in ordini o collegi ha trovato un formale riconoscimento delle stesse con la legge 14 gennaio 2013, n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate), richiamata dagli appellanti a fondamento dei propri assunti, che integra un mutamento del quadro normativo rispetto all’unico precedente di questo Consiglio di Stato contrario alle tesi degli appellanti, richiamato dall’amministrazione appellata (in particolare: Cons. Stato, IV, 28 novembre 2012, n. 6028);

– nel sancire il principio del libero esercizio delle professioni c.d. non ordinistiche, la legge ora richiamata informa queste attività al rispetto dei principi «di buona fede, dell’affidamento del pubblico e della clientela, della correttezza, dell’ampliamento e della specializzazione dell’offerta dei servizi, della responsabilità del professionista» (art. 1, comma 4); prevede inoltre la libera costituzione di associazioni professionali «di natura privatistica (…) con il fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza», e con i compiti di promuovere «la formazione permanente dei propri iscritti» e di «vigila(re) sulla condotta professionale degli associati e stabili(re) le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice (codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206)» (art. 2, commi 1 e 3); consente alle associazioni in questione di iscriversi in un elenco «pubblicato dal Ministero dello sviluppo economico nel proprio sito internet», da cui deriva l’«assunzione di responsabilità» sul possesso dei requisiti previsti dalla legge per queste forme associative professionali e sul rispetto delle prescrizioni della medesima legge 14 gennaio 2013, n. 4 (art. 2, comma 7), tra i quali il perseguimento del fine di «qualificazione dell’attività dei soggetti che esercitano le professioni», secondo la conformità della stessa alla «normativa tecnica UNI», ai sensi dell’art. 6 della legge; infine, correla all’iscrizione nel menzionato elenco ministeriale – di cui si è avvalsa l’appellante Associazione nazionale tributaristi Lapet – l’assoggettamento dell’associazione professionale al potere di vigilanza e sanzionatorio del Ministero dello sviluppo economico (ora delle imprese e del made in Italy);

– nel dichiarato obiettivo di conformare l’ordinamento giuridico nazionale ai «principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione» (art. 1, comma 1), la legge 14 gennaio 2013, n. 4, ha quindi introdotto elementi di assimilazione tra professioni organizzate in ordini o collegi e professioni che tali non sono, e che si fondano sul libero esercizio di un’«attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale», secondo la definizione di cui al successivo comma 2;

– vero è, peraltro, che la medesima legge riconosce l’antitesi tra la libera professione da un lato e «l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti», comportanti «l’iscrizione al relativo albo professionale» dall’altro lato (art. 2, comma 6);

– nondimeno, sulla base delle disposizioni in precedenza richiamate promuove la costituzione di organizzazioni a base associativa finalizzate a garantire alla clientela che l’attività professionale prestata dai propri aderenti sia svolta secondo adeguati criteri di capacità e competenza professionale e nel rispetto delle relative norme deontologiche;

– l’obiettivo perseguito dalla legge ha dunque riflessi sul profilo, rilevante nel presente giudizio, dell’affidabilità professionale che deve presiedere all’apposizione del visto di conformità sulle dichiarazioni presentate all’amministrazione finanziaria;

– esso vale infatti ad equiparare alle professioni ordinistiche sotto il profilo della garanzia di esercizio della professione sulla base dei poc’anzi richiamati requisiti di capacità e correttezza, quelle per il cui esercizio non è necessaria l’iscrizione in albi o elenchi tenuti dall’apposito ente esponenziale della categoria;

– le due categorie rimangono distinte per la natura dei mezzi attraverso cui questo risultato viene perseguito;

– per le professioni non ordinistiche la legge 14 gennaio 2013, n. 4, prevede infatti l’impiego di strumenti di carattere privatistico, coerenti con l’assenza di fattori istituzionali rivenienti da atti dell’autorità pubblica, quali codici di autoregolamentazione e condotta ex art. 27-bis del codice del consumo e forme di garanzia a tutela dell’utente (art. 2, commi 3 e 4, della legge ora richiamata), con i connessi poteri di vigilanza e controllo fondati sul consenso liberamente espresso dal professionista in sede di costituzione o adesione dell’ente associativo di riferimento (v. il già richiamato art. 4 dello statuto della associazione ricorrente, che include tra i compiti di questa quello di vigilare sull’attività professionale svolta dagli associati nei confronti dei terzi e della pubblica amministrazione);

– peraltro, il corretto esercizio da parte di quest’ultimo dei poteri conferitigli dagli associati si inquadra a sua volta in un sistema di controllo pubblicistico facente capo alla competente autorità ministeriale per le associazioni che, come la ricorrente nel presente giudizio, si siano ad esso volontariamente assoggettate, con l’iscrizione nell’elenco previsto dal citato art. 2, comma 7, della legge 14 gennaio 2013, n. 4;

– nell’indifferenza del mezzo impiegato – che deve presumersi in ragione di tutto quanto finora esposto – il risultato di elevare le garanzie di affidabilità professionale realizzato attraverso il sistema introdotto dalla medesima legge induce pertanto a ritenere non manifestamente infondati di dubbi di conformità al principio costituzionale di ragionevolezza e non discriminazione del regime attualmente vigente di riserva a favore di alcune categorie di professionisti del rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni;

– ciò nella misura in cui esso appare informato ad un principio di preferenza per le professioni organizzate in ordini o collegi, nel presupposto che solo una vigilanza istituzionale sul rispetto della deontologia professionale, svolta da enti istituiti per legge e titolari in base ad essa di poteri pubblicistici sulla categoria di riferimento, offra garanzie adeguate per l’amministrazione finanziaria nell’attività di controllo e liquidazione delle dichiarazioni fiscali, attraverso il visto di conformità apposto su queste ultime;

– sennonché, come finora esposto, il presupposto si palesa tuttavia non più attuale, dal momento che in base al riconoscimento delle professioni non organizzate in ordini o collegi di cui alla legge 14 gennaio 2013, n. 4, la funzione di controllo sul rispetto della deontologia professionale risulta adeguatamente perseguibile attraverso strumenti privatistici, tanto più quando questi siano a loro volta inquadrati in un sistema pubblicistico di vigilanza ministeriale;

– nella sostanza, la disposizione di legge qui in contestazione finisce per discriminare in modo non ragionevole una categoria di professionisti, quali gli appellanti, ai quali l’ordinamento pacificamente consente di operare come consulenti fiscali, di predisporre e trasmettere le dichiarazioni fiscali, di trattare e conservare i dati contabili, senza però poter rilasciare il visto di conformità, che al contempo non potrebbe essere rilasciato dai professionisti iscritti all’ordine, a causa del divieto di certificare le dichiarazioni fiscali non redatte personalmente dal professionista, creando una disparità di trattamento rispetto ai professionisti iscritti all’ordine non giustificata per le ragioni anzidette;

– oltre che sotto il profilo della ragionevolezza e non discriminazione ex art. 3 Cost., dall’attuale regime di riserva dell’attività di rilascio del visto di conformità alle categorie professionali attualmente individuate dalla legge, appare derivare l’effetto di limitare il libero esercizio dell’attività professionale e della iniziativa economica per le categorie non comprese nella medesima riserva, benché come nel caso dei tributaristi la professione sia per un verso riconosciuta e inquadrata nel sistema della legge 14 gennaio 2013, n. 4, e per altro verso sia compresa tra quelle abilitate ai sensi del sopra richiamato art. 3, comma 3, lett. e) del DPR n. 322/1998 all’invio telematico delle dichiarazioni;

– tale limitazione appare porsi in contrasto anche con l’art. 41 della Costituzione, che nell’assicurare la libertà dell’iniziativa economica ha inteso tutelare anche la concorrenza sia in senso soggettivo (regime nel quale è assicurata a ciascun soggetto la libertà di iniziativa economica), sia in senso oggettivo (regime in cui la presenza sul mercato di una pluralità di operatori fa sì che le condizioni di mercato non siano influenzate da uno solo di essi), riconoscendo il principio di concorrenza quale parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 41 ora richiamato (cfr., fra tutte, Corte cost., 9 marzo 2007, n. 64, e 22 maggio 2013, n. 94);

– nel caso di specie, dovendo i singoli professionisti e le loro associazioni rappresentative essere considerate imprese ai sensi del diritto della concorrenza (cfr., fra tutte, Corte di giustizia, 18 luglio 2013, C-136/12 e Cons. Stato, VI, 22 gennaio 2015, n. 238), la contestata limitazione dei soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità finisce per incidere negativamente sulla libertà di iniziativa economica dei professionisti tributaristi non iscritti agli ordini professionali, i quali subiscono, come dedotto dagli appellanti e non contestato dall’amministrazione, uno sviamento della clientela verso i professionisti iscritti all’ordine anche per attività non riservate a questi ultimi;

– ciò nella misura in cui la mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni senza possibilità di apporre il visto di conformità priva la clientela dei primi di rilevanti effetti che l’ottenimento del visto produce sulla posizione fiscale e amministrativa, con conseguente maggiore convenienza a rivolgersi ai professionisti iscritti all’ordine anche per la predisposizione e la trasmissione delle dichiarazioni fiscali, posto che questi ultimi sarebbero gli unici in grado di rilasciare il visto di conformità;

– in questo modo la contestata limitazione dei soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità ha dunque l’effetto di estendere in via di fatto la riserva di attività anche ad attività pacificamente liberalizzate, ma il cui affidamento ai professionisti tributaristi non iscritti all’albo viene fortemente disincentivato, in contrasto con le menzionate riforme ispirate alla liberalizzazione di determinate attività e al carattere tassativo ed eccezionale delle attività riservate agli iscritti all’ordine (cfr. Cass. Civ., II, 11 giugno 2010 n. 14085 e 28 marzo 2019 n. 8683, secondo cui al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione, per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza; che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi);

– va sul punto ricordato come il sistema degli ordinamenti professionali di cui all’art. 33, comma 5, della Costituzione deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l’interesse corporativo di una categoria professionale a mantenere sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica, ma quello degli interessi di una società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità (cfr., Corte Cost. n. 345 del 1995 e n. 418 del 1996);

– l’evidenziato effetto restrittivo è accentuato dalla sopra menzionata regola di «identità soggettiva tra il soggetto che appone il visto di conformità e colui che predispone le dichiarazioni e cura la tenuta delle scritture contabili» riaffermata dall’art. 23, comma 1, del citato decreto ministeriale 31 maggio 1999, n. 164;

– l’impossibilità legale per i tributaristi di rilasciare il visto di conformità è, in definitiva, incontestabilmente in grado di determinare una restrizione di mercato in loro danno, per l’intuibile preferenza che per il contribuente può rivestire rispetto ad essi il professionista invece abilitato all’attestazione di cui si controverte;

– per le medesime considerazioni appaiono, infine, non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità del medesimo regime di riserva di attività in relazione al mancato adeguamento ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» ex art. 117, comma 1, della Costituzione, sotto il profilo della «libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione» enunciato dall’art. 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come declinato dall’art. 16 della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (relativa ai servizi nel mercato interno), la quale osta a restrizioni normative nazionali non conformi ai principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità (par. 3 della disposizione da ultimo richiamata);

– a questo riguardo deve premettersi che secondo il diritto vivente (Corte di giustizia, sentenza 30 gennaio 2018, C-360/15 e C-31/16), la direttiva da ultimo richiamata si applica «non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato» (§ 103) e dunque «anche in situazioni puramente interne» (§ 105).

– ciò premesso, nella misura in cui per quanto finora esposto non appaiono apprezzabili effettive ragioni per impedire a professionisti abilitati all’invio delle dichiarazioni dei redditi all’amministrazione finanziaria l’ulteriore attività consistente nel rilasciare a favore di quest’ultima l’attestazione necessaria a semplificarne l’attività di controllo, si profila una discriminazione in danno della categoria professionale pregiudizievole per il loro diritto di matrice sovranazionale alla libera prestazione dei loro servizi, non necessaria perché sfornita di un sottostante motivo imperativo di interesse generale e sproporzionata perché eccedente gli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

Per tutte le ragioni finora esposte, ai sensi del sopra citato art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il presente giudizio va dunque sospeso nelle more della definizione dell’incidente di costituzionalità in relazione alle questioni come sopra delibate e riferite all’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nella parte in cui individua i soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità nell’elenco di professionisti contenuto nelle sole lett. a) e b) del comma 3 dell’art. 3, del DPR del 22 luglio 1998, n. 322, e non anche negli altri soggetti indicati dallo stesso comma 3 e, in particolare, in quelli di cui alla lett. e), tra cui rientrano gli odierni ricorrenti.

                                                                                                                P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima) non definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate, in relazione agli artt. 3, 41 e 117, comma 1, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nei sensi di cui in motivazione.

Sospende il giudizio in corso e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia notificata alle parti e sia comunicata al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 dicembre 2023 con l’intervento dei magistrati:

Roberto Chieppa, Presidente

Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere

Sergio Zeuli, Consigliere